30% è il risultato disarmante dell’affluenza al referendum. Non sono bastati due mesi di campagna per la CGIL e parte del PD a convincere gli elettori ad andare a votare. Se poi andiamo ad analizzare i dati nel dettaglio si scopre che l’affluenza più bassa è stata registrata al Sud e nelle zone di periferia con un alto tasso di povertà nelle quali sono spesso presenti storie di caporalato e sfruttamento a cui assistiamo spesso davanti ai Tg. È una contraddizione che la sinistra riscontra da anni, senza mai riuscire a metterci mano. La sensazione è che la frangia di reddito basso della popolazione abbia la percezione che la propria situazione economica sia talmente in stallo che nessuna legge o decreto possa porvi rimedio.
Prendiamo, ad esempio, il quesito degli appalti che è legato alla sicurezza sul lavoro. Un operaio edile a basso reddito ha più paura che si blocchino i cantieri rispetto alla responsabilità oggettiva di chi acquisisce un appalto e poi lo cede in subappalto a ditte che per definizione sono “meno attente” a come si svolgono i lavori. Se passiamo, invece, al comparto turistico alberghiero e prendiamo una cameriera di una trattoria vedremo che avrà di sicuro una parte di ore in busta paga e un’altra in nero. Se ci aggiungiamo che in quel contesto non si timbra il cartellino non si capisce il senso del voto al referendum sui quesiti del lavoro.
Spesso la sinistra fa battaglie ideologiche, ma la realtà è spesso molto più complessa e articolata, fatta anche di rapporti umani che spesso influenzano le dinamiche di lavoro più delle normative. Questo referendum si basa su una concezione del lavoro di oltre 40 anni fa, ma il mondo è sempre andato avanti mai indietro; questo flop fa notare la poca conoscenza del territorio che hanno certe figure politiche molto radical chic.

30% di affluenza al referendum. Soldi buttati nel cesso
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