Biondi immobiliare

Si è in settembre, un settembre caldo fuori dell’ordinario. La storia di Divorzio a Buda si svolge nell’arco di poche ore, dalla sera al mattino del giorno dopo. Protagonista è Kristòf Komives, giudice per cause di divorzio, di una famiglia di giudici, sposato e padre. Prima di lasciare il lavoro getta lo sguardo dalla finestra che dà sul muro delle carceri. Sistemazione non eccellente la sua, pensa, non poteva reclamarne di migliore stante i colleghi suoi più anziani e di livello superiore. Da persona scrupolosa com’è ha appena sfogliato gli atti processuali che lo attendono il giorno dopo. Tra questi la causa di un suo ex compagno di scuola, medico di una certa notorietà in città, Imre Greiner. Avrebbe potuto rinunciare all’incarico conoscendo le parti in causa. Ma il caso rientra nella norma, il giudizio è scontato, il matrimonio sarebbe stato sciolto secondo la richiesta della donna.

Tutto è in mutamento, moda, macchine, convinzioni, ma il compito del giudice non è quella di comprendere, lui pensa, semmai quello di accertare, prendere atto che due esseri umani non tollerano più la compagnia l’uno dell’altra. Il matrimonio è sì un sacramento, una grazia, ma nelle mani dell’uomo si deforma. Cosa pretendere? gli uomini non osservano neppure i dieci comandamenti! Della donna di quel compagno di scuola ha flebili ricordi. Si chiama Anna Fazekas, sposata appunto in Greiner. I colleghi se ne sono andati, l’edificio è silenzioso. Quando esce riceve il saluto rispettoso e insieme un tantino confidenziale del custode, che non gli dispiace.

Lo attendono al Caffè gli amici, per un aperitivo si direbbe oggi, giusto per stare in società, il tributo da pagare al gran mondo. Va con passo lento, svogliato, il busto inclinato, sente una certa indolenza del corpo. Decadimento fisico? Forse. Non è più giovane, ha messo la pancetta, eppure sa di essere sobrio nel mangiare e nel bere. Ha avuto qualche malessere ma gli esami medici l’hanno rassicurato.

Kristòf era nato dal secondo matrimonio del padre, ma la seconda moglie, sua madre, se n’era andata di casa, lasciandolo solo col padre. Il fatto aveva lasciato un segno su ambedue i genitori, e su di lui. La madre non sopportò il dramma della fuga. Morì poco dopo di febbre puerperale. Il padre affrettò la conclusione della sua vita e lo trovarono con la rivoltella in pugno.

Aveva visto poi le certezze del padre sgretolarsi, col paese in disgregazione. Alla venuta del comunismo si era eclissata nel padre l’idea di patria che rappresentava la più alta espressione del concetto universale di famiglia. Nel cassetto della scrivania Kristòf aveva scoperto innocenti lettere che i due genitori si erano scritte al tempo del fidanzamento ma nessun segreto che rivelasse i futuri eventi.

Kristòf era il primogenito. Il fratello era morto in guerra. I Komives si erano sempre fatti onore nella vita. Lui ricorda l’inizio della guerra, i titoli cubitali del giornale. Ricorda le disquisizioni sulla guerra che si facevano poco prima che scoppiasse. La fatale parola buttata lì da qualcuno, la gente seduta ai tavolini a discutere, poi tutto divenuto naturale, un teatro di morti e cannoni, e la gente rassegnata.

Quando finalmente giunge a casa i bambini sono già a letto. Giusto! – si dice – visto che domani è il primo giorno di scuola. Da nove anni Kristòf era sposato con Hertha, donna bellissima, guardata quasi con soggezione dagli uomini. Era figlia del famigerato generale Wiesmeyer che non aveva esitato a dare l’ordine di attacco in un’offensiva senza scampo. Quando Kristòf l’aveva vista la prima volta lei stava discutendo con un barcaiolo. Aveva in mano una banconota di grosso taglio che l’uomo non voleva cambiare. Si era rivolta a lui giunto in quel momento. In risposta lui aveva fatto un profondo inchino. Il giorno dopo si erano rivisti al ristorante e le aveva chiesto scusa per il comportamento tenuto.

Kristòf è arrivato stanco, vuole stare in pace, ma Trude, la domestica, ha una cosa da dirgli. C’è un signore che lo aspetta. Lei non sa, non ci capisce niente ma l’uomo ha insistito. “Chi è? Cosa vuole? A quest’ora? E lei fa entrare in casa uno sconosciuto!” Ma si tratta del suo compagno di scuola, quello della causa di divorzio, vuole parlargli. Tra i due si svolgerà un tormentato faccia a faccia e la verità si svelerà, drammatica e tragica.

CHI E’ SANDOR MARAI?

Sàndor Màrai era nato a cavallo dei due secoli, sulla frontiera di due mondi, tra pace idilliaca e sinistri lampi di sommovimenti. Basta vedere dove si trova Kosice, sua città di nascita, un angolo della Slovacchia di oggi, tra Polonia, Ucraina, Ungheria, allora Impero austro-ungarico. La sua lingua era l’ungherese ma quando cominciò a scrivere fu in bilico tra l’ungherese e il tedesco. Dopo la guerra si trovò davanti al muro del comunismo. Se ne andò negli Stati Uniti. Pur con la cittadinanza americana continuò a girare. Visse per qualche anno anche in Italia, sulla Costa Amalfitana. A 89 anni, dopo aver frequentato il poligono di tiro, con un colpo di pistola si tolse la vita. Qualche mese dopo sarebbe caduto il Muro di Berlino.

I suoi libri non ebbero successo, lui in vita. Animo tormentato il suo come succede per i grandi scrittori. Nel romanzo il protagonista, il giudice Komives, mentre sta recandosi al Caffè, dopo la giornata lavorativa, guarda alla città vecchia Buda, sulla riva destra del Danubio, mentre Pest è sulla sinistra. Ogni giorno attraversava il ponte per recarsi al suo ufficio. A Buda si sentiva a casa. Vi scorgeva “il passato in certe rovine venerabili e ben conservate simili ad arredi sacri”, palazzi storici che sembravano qualcosa di inestimabile. “Se tutti restassero saldi al proprio posto come lui al suo forse si sarebbe riusciti a salvare la famiglia alla quale apparteneva, l’immensa famiglia!

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