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La loro prima tappa fu lo stato di Wei dove Zilu aveva parenti e conoscenti che avrebbero potuto presentare Confucio al sovrano del posto. Utile era anche la presenza di altri uomini potenti al servizio del sovrano che conoscevano la reputazione di Confucio ed erano disposti ad aiutarlo.

Ciononostante Confucio non riuscì ad ottenere alcun incarico. Parte del problema era lui stesso: il maestro non era disposto a legarsi a nessuno che avrebbe potuto portargli più problemi che garanzie. Inoltre, lo stesso sovrano di Wei, troppo impegnato a gestire conflitti con gli stati vicini, non era interessato ad accogliere qualcuno capace di offrirgli consigli. Tuttavia, Confucio era un uomo paziente ed aspettò quattro anni prima che gli fosse concessa un’udienza. L’attesa non fu premiata, l’incontro si rivelò infatti deludente e confermò solo ciò che Confucio già sapeva del carattere e della personalità di quest’uomo. Peraltro, subito dopo, il sovrano morì e Confucio non vide più alcun motivo per rimanere a Wei. Così, si diresse a sud con i suoi discepoli.

Prima di raggiungere lo stato di Chen, la sua tappa successiva, rischiò la vita due volte. La prima volta un ufficiale militare, il cui nome era Huan Tui, gli tese un’imboscata, una seconda volta si trovò circondato da un gruppo di uomini armati nella città di Kuang, scampò all’omicidio grazie all’aiuto dei suoi discepoli. Questi eventi non erano fatti accidentali, erano il risultato di macchinazioni compiute dai nemici di Confucio. Viene da chiedersi chi avrebbe voluto vederlo morto. Gli storici di epoche successive hanno cercato di trovare una risposta a questa domanda, e sebbene non abbiano mai elaborato una spiegazione adeguata a motivare il gesto di Huan Tui, a spiegare il tentativo di linciaggio della folla di Kuang sembra sia stato semplicemente lo scambio di persona.

Nei Dialoghi, la fonte più affidabile sulla vita di Confucio, sono riportate le parole che disse Confucio nei momenti in cui si rese conto che la morte poteva essere imminente: “Il cielo mi ha dato questo potere, questa virtù. Cosa potrai mai farmi Huan Tui!” (Analects, 7:23). La sua  fiducia in se stesso e nella protezione del Cielo si rivelò ancora maggiore nell’occasione dell’assedio di Kuang: “Dopo la morte del fondatore della dinastia Zhou, le vestigia culturali di quest’uomo sono investite in me“. E poiché “il cielo non ha distrutto questa cultura” e non intende farlo, si prenderà cura degli eredi culturali degli Zhou. Così, Confucio declamò: “Cosa può farmi la gente di Kuang?” (Dialetti, 9:5).

Scampato il pericolo, pieno di fiducia nella sua missione, Confucio continuò il viaggio verso Chen, dove si stabilì per tre anni. Stava passando un periodo di pace e tranquillità quando scoppiò una guerra tra la città e uno stato vicino che lo costrinse ad abbandonare il luogo per spostarsi nuovamente, questa volta verso ovest, nello stato di Chu. Uno sfortunato imprevisto si verificò sui viaggiatori: le provviste si esaurirono e Confucio e i suoi seguaci, ridotti alla fame, divennero così deboli “che nessuno di loro poteva alzarsi in piedi” (Analects 15:2). Gli storici si sono chiesti come Confucio si sarebbe comportato in questa drammatica situazione: era calmo o irritato? Come incoraggiava i suoi discepoli?  E quale discepolo lo ha capito meglio e gli ha offerto conforto? Visto che non ci sono pervenute fonti storiche che contenessero le risposte a tali quesiti non possiamo che formulare congetture. Si sa soltanto che alla fine decisero di tornare indietro, prima a Chen e poi a Wei.

Il viaggio di ritorno durò più di tre anni e, dopo aver raggiunto Wei, Confucio vi rimase per altri due anni. Nel frattempo, due dei suoi discepoli, Zigong e Ran Qiu, decisero di lasciare Confucio per accettare un impiego nel governo di Lu. Gli insegnamenti del maestro tornarono utili, immediatamente Zigong dimostrò il suo talento nella diplomazia, e Ran Qiu fece lo stesso nella guerra. Probabilmente furono questi due uomini ad avvicinarsi al sovrano e al capo consigliere di Lu, chiedendo loro di fare una generosa offerta a Confucio per attirarlo a tornare. Il loro piano funzionò e Confucio tornò a casa.

Il grande maestro non ottenne alcun incarico formale nel governo di Lu, perché ciò non era necessario. Il sovrano e i suoi consiglieri lo consideravano “l’anziano dello stato” (guolao) e quindi si rivolgevano a lui direttamente per un consiglio ogni volta che fosse necessario, spesso usando i suoi discepoli come intermediari.

In quel periodo il numero dei suoi discepoli cominciò a moltiplicarsi contemporaneamente alla sua reputazione e a quella di Zigong e Ran Qiu. Alcuni di loro gli chiesero dell’idea di virtù, dei requisiti morali per servire nel governo o del significato di frasi come “percezione acuta” e “giudizio offuscato” (Analects, 12:6; 12:10). Altri volevano sapere come perseguire la conoscenza e come comprendere testi particolarmente difficili per approfondimenti (Analects, 3:8). Confucio cercò di rispondere a queste domande nel miglior modo possibile, ma le sue risposte, variando a seconda del temperamento dell’interlocutore, crearono confusione tra i suoi studenti quando cercarono di confrontare gli appunti. Questo modo di istruire era in realtà voluto e del tutto in sintonia con quello che il maestro credeva essere il ruolo di un insegnante. Un insegnante poteva solo “indicare un angolo di un quadrato”, diceva; spettava agli studenti “trovare gli altri tre” (Analects, 7:8). Insegnare, per Confucio, significava “trasmettere luce” (hui): diventare una guida per gli studenti e invogliarli ad andare avanti, in modo che anche quando sono stanchi e scoraggiati, anche quando vogliono arrendersi, alla fine scelgono di non farlo. Lo stesso Confucio disse di se stesso: “Sono il tipo di uomo che dimentica di mangiare quando è concentrato per risolvere un problema, che è così felice che dimentica i problemi e non si rende nemmeno conto dell’inizio della vecchiaia” ( Dialoghi, 7:19).

Quando la vecchiaia arrivò, Confucio rimase una persona piena di ottimismo. Questo, tuttavia, non significa che fosse esente da preoccupazioni. Anzi, secondo gli storici, negli ultimi anni della sua vita era tormentato dai pensieri. Eppure, nonostante le battute d’arresto e le afflizioni, non perse il buon umore perché la vita lo stupiva e continuava ad incuriosirlo. Confucio si paragonava al pino e al cipresso perché «sono gli ultimi a perdere gli aghi» (Analects, 9:28). Morì all’età di 73 anni l’undicesimo giorno del quarto mese lunare dell’anno 479 a.C.. Si dice che sia morto di cause naturali. Fu sepolto nel cimitero dei Kong, situato a pochi chilometri dalla città di Qufu, e da allora la sua tomba è diventata una delle principali attrazioni turistiche della Cina.


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Autore

Enrico Valente

Enrico Valente è nato a Torino nel 1978 dove si laurea in giurisprudenza nel 2004. Da oltre vent'anni si dedica allo studio e alla ricerca filosofica e da alcuni anni affianca la passione per la scrittura alla traduzione di saggi e romanzi. Con ”L'arte di cambiare, da bisogno a desiderio dell'altro” la sua opera di esordio, vince nel 2021 il primo premio al Concorso nazionale di filosofia ”Le figure del pensiero”, nello stesso anno riceve per la medesima opera la menzione d'onore al Premio di arti letterarie metropoli di Torino e arriva finalista al concorso di Città di Castello. Attualmente è impegnato alla preparazione di una collana intitolata ”Incontri filosofici” dedicata ai grandi protagonisti della filosofia che sta ricevendo un notevole riscontro da parte del pubblico ed è in corso di traduzione all'estero. Il suo primo numero “Il mio primo Platone” è arrivato finalista al concorso nazionale di filosofia di Certaldo (FI) 2022.

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