
Sono nel Convento delle Suore della Carità di via San Bernardino. Mi trovo per caso. Avevo letto di un’iniziativa in occasione della Settimana della Cultura promossa dalla Diocesi, iniziative a seguito del gemellaggio Bergamo Brescia, capitali della Cultura. L’evento parlava di canti, letture, testimonianze, preghiere. Girovagando nel pomeriggio del sabato in città mi sono incuriosito. Ho chiesto in portineria dove ho incontrato la giovane signora dell’organizzazione. “Venga!” e dopo il corridoio mi ha fatto entrare nella sala. Sorpreso io a trovarmi davanti tante suore anziane, sorprese loro per un visitatore inaspettato. Ero capitato in una casa di riposo per le suore dell’Ordine, come mi ha subito spiegato una di loro seduta accanto, “Siamo tutte ultraottantenni”. Essendo brianzola mi sono messo a parlare di luoghi che mi erano familiari tramite mia mamma. La suora aveva un bel curriculum di esperienze, viaggi, scuole o case di missione. “Ce ne sono altrettante di sopra, allettate”.
Popolarmente dette Suore di Maria bambina. Le fondatrici dell’Istituto sono le sante loveresi Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, vissute a metà Ottocento. L’ordine è attivo in tutto il mondo. “In Brasile e in India soprattutto” mi ha detto, “e la superiora attuale è indiana; indiane sono le suore che ci assistono, oltre il personale specializzato”. E ha aggiunto “senza di loro rischieremmo di chiudere”. “Salvo la Provvidenza” ho risposto, insieme al suo e mio sorriso.

Vengo a sapere che nella cappella si conserva una tela del Moroni, Il crocifisso tra i santi Francesco e Antonio. La portinaia gentilmente mi accompagna. “L’hanno restaurato qualche anno fa con l’aiuto della Banca e lo scorso anno abbiamo aperto alle visite, con gli studenti del Liceo Sarpi che hanno fatto da accompagnatori”. Poi una suora mi racconta la sua storia:
“Sono del 1932. Sono rimasta orfana tre mesi prima di nascere. Venivo da una famiglia povera. Mio papà era andato in Francia a lavorare. Improvvisamente giunse la notizia che lui si era ammalato, una polmonite fulminante che l’avrebbe portato alla morte. Mi raccontò mia madre che partì subito e giunse in tempo per raccogliere qualche parola al suo capezzale: “Questi sono i pochi soldi del mio lavoro, ma abbi cura di quel che nascerà”. Ero io. Il papà rimase sempre nei discorsi di famiglia e nel mio cuore. La mamma si rimboccò le maniche. Crescemmo in una stanza sopra e la cucina sotto. Di sostentamento la mamma aveva quattro galline e due conigli, un po’ ce lo procuravamo noi andando nel bosco. O provvedeva la carità dei vicini, la Provvidenza non ci è mai mancata. La mamma ci insegnava ad aver fiducia nella Provvidenza. Al mattino la mamma ci dava il compito: chi doveva pensare alla legna, chi alle castagne, ai funghi, all’erba per i conigli.
Tante bocche da sfamare. Presto e a malincuore, la mamma mi mandò dalla zia di Bergamo. Lasciavo una famiglia di sei persone e entravo in un’altra altrettanto numerosa, ma con più possibilità. Si può dire che io ho vissuto una famiglia allargata. Mi accolsero e mi trovai bene. Secondo la stagione, il caldo o il freddo, andavo avanti e indietro, da Bergamo ad Almenno e viceversa. Mi ero così affezionato alla seconda mamma che qualche volta facevo confusione. All’arrivo della mamma in visita corsi dalla zia dicendo: “vieni che è arrivata la zia” e mia mamma ci rimase male.
Giunse la guerra. Il peggio fu nel ’44, coi rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti. Noi abitavamo in una frazione sopra Almenno, quattro case, la piazzetta con il campo di bocce, la fontana, due sassi per sedersi dove ci si trovava la sera, stanchi di fatica, a cantare e scherzare. Dalla nostra frazione, sulla strada per la Roncola, vedevamo gli aerei abbassarsi nei pressi di Ponte San Pietro. e sentivamo le bombe. C’era il ponte e anche un campo di aviazione militare. Sentivamo le bombe, un rimbombo che faceva tremare la fontana della piazza, i muri, e metteva brividi. Ci fu una fuga di prigionieri, nel campo di detenzione di Grumello e alcuni di loro arrivarono da noi, gente diversa, serbi, sudafricani, neri, polacchi. Chiedevano pane e rifugio. Mia mamma ci disse che qualcosa dovevamo fare. Ospitammo un sudafricano, un nero, ma la paura dei tedeschi era tanta. Una mattina arrivarono con i mitra in mano. Nascondemmo il prigioniero sotto le fascine di legna. La mamma li fece entrare. Per convincerli li portò nella legnaia: “vedete da voi che non ci sono”. Immaginate la paura di quel momento. I soldati se ne andarono.
Venne il 25 aprile. Di mattina mio cugino arrivò gridando “è finita la guerra” e quelle parole “è finita la guerra” si ripeterono, dall’uno all’altro, quasi a non crederci. Non vi dico la felicità e la festa di quel giorno. Il brutto fu il giorno dopo, quando dal paese arrivavano notizie di vendette, donne rapate, gente arrabbiata, di odi che esplodevano. La guerra si trascinò per un po’. Giunse poi per me il tempo della scuola. Si pensò bene di rimandarmi a Bergamo. Avevo più possibilità di imparare. Mi piaceva la scuola, imparavo. Frequentai i corsi di taglio e cucito e finii in una sartoria di Borgo Santa Caterina a confezionare abiti. Finché la vita cambiò. Sempre all’insegna della Provvidenza conobbi le Suore di Maria Bambina. Oggi sono qui con voi. Come voi ho girato: sono stata suora in Brianza, nel basso milanese, nel bresciano, a Bergamo. Sono qua, e ringrazio ancora la Provvidenza. Ho messo insieme questi poveri pensieri su invito di questa giovane signora, tanto gentile e premurosa che mi incoraggiato a raccontare la mia storia. Una testimonianza, si dice.”
Finito il racconto, esco e mi ritrovo nel frastuono del centro, nel preludio alla tradizionale sfilata dei carri di metà Quaresima.
La rubrica è diventata un libro
