Biondi immobiliare

L’espressione Je est un autre, io è un altro – e non “io sono un altro” – viene ripetuta da Arthur Rimbaud due volte in due lettere a distanza di due giorni. “Voglio essere poeta e faccio di tutto per rendermi veggente. Arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza (le dérèglement des tous le sens)”. Non più la poesia del soggetto o l’io romantico. Alla ricerca di sé all’inferno: au fond de l’inconnu pour trouver de nouveau! Poeta maledetto, con orgoglio luciferino. Arthur Rimbaud nasce nel 1854. A 16 anni il primo poema, a vent’anni ha scritto tutto e tutto abbandona. Va ramingo per l’Europa; poi l’Africa, e a 39 anni muore. Lacan commenta il dettato di Rimbaud: “L’IO non è negato ma spiazzato. L’io è altro, non quel che è“.

In un ritorno a Freud commenta il fatto del bambino che si riconosce allo specchio. Arriva all’io per vie traverse, attraverso lo specchio. Con lo specchio costituisce il suo io. Allo specchio il bambino controlla la sua corporeità e si appropria di sé. Lo ribadisce (1936) con il mito di Narciso. Il bellissimo giovane annega vedendo la propria immagine riflessa nella fonte. Assapora il sé e trova la sua fine. La scoperta dell’io così essenziale nei passi del bimbo per diventare adulto è pure destabilizzante. Ciò che comprende in magnifica sorpresa produce turbamento: “Io qui eppure là, dentro e fuori di me”.

“Io è un altro”. Il soggetto origina da fuori, non nell’interiorità ma nell’esteriorità. Nel mondo, ad ogni incontro io divengo sempre più consapevole di me. Devo agli altri il mio riconoscimento. Lacan suggerisce l’immagine della cipolla. A strati la persona ricostruisce l’identità, le stratificazioni sono le sue varie identificazioni. Io esisto nei vari sedimenti, negli incontri che si succedono. Mi compio nel restare aperto. L’altro è lo specchio, guardando l’altro vedo me. L’uscita da me mi genera. Con l’altro in comunanza, seppur irriducibile a me. Tento di ricostituire l’identità primaria, la vita della placenta. Anche se posso regredire chiudendomi, e il desiderio resta in disperata mancanza.

Lacan era di famiglia di borghesia medio alta, di pratica cattolica. Il fratello diventò monaco benedettino. Ma Jacques abbandonò presto la fede religiosa. Si iscrisse a medicina e si specializzò in psichiatria con il tirocinio all’Ospedale S. Anna di Parigi. Dove venne a contatto con la sofferenza, e la paranoia. Si interessò a quella sofferenza da internamento. Capì che la follia aveva una coerenza. Anche il paranoico cercava un senso. Il “folle” suppone che ci sia una causa che dà significato a quel che gli accade. Sente attorno a sè una sorta di complotto e persegue un suo ordine nel disordine, un filo nella perdita del sé, una sintassi nell’accavallarsi di inerzie e ribellioni. I suoi malati erano quiescenti, non erano padroni di sé ma nel loro disadattamento si manifestava una razionalità. A volte parlava di creatività. Lo spunto gli era venuto in un incontro con Salvator Dalì.

Alla ricerca della verità, alla stregua di noi sani. Quando vogliamo conoscere le cose nascoste condividiamo una struttura analoga a quella dei paranoici, simili nel desiderio, simili nelle fantasie e nelle immaginazioni, affannati di verità. Lacan studiò i casi di donne catalogati come isteria o paranoia. Il caso della donna, apparentemente nella norma, che di punto in bianco attentò ad un’attrice famosa. Da un’attenta analisi Lacan intuì che dipendeva dal contesto sociale e psicologico. Il caso rientrava per lui nella dinamica del desiderio. Colpendo l’attrice la donna colpiva sé, il suo IO che si specchiava in un io ideale rappresentato dall’attrice.

Un altro caso, quelle delle sorelle che uccisero selvaggiamente padrona e figlia dove lavoravano. Nel loro inconscio l’intento era di distruggere la struttura di diseguaglianza, la sudditanza che le schiacciava, il dominio delle “signore” per loro un peso insopportabile: “Vi distruggo perché mi volete distruggere”. Inevitabile il raffronto con Hegel e la dialettica servo-padrone. Lacan aveva partecipato al Seminario sulla Fenomenologia dello Spirito tenuto da Kojève nel 1933 davanti ad altri importanti intellettuali del tempo. Il soggetto è lacerato, diceva, obbligato ad accertare la propria esistenza dall’altro come per donazione dell’altro. Si ritrovo in realtà ad essere suddito, a vivere in un rapporto asimmetrico, alla mercé dell’altro.

Lacan lo applicava al linguaggio. L’unica parola piena è la parola dell’altro io e IO non ne sono l’autore. Devo tutto all’altro. La lingua che trovo fuori di me nell’altro mi possiede, da essa traggo i brandelli del mio discorso. Non parlo ma sono parlato. Idee che Lacan attuò nelle pratiche della cura quotidiana. Volle interrompere la consuetudine dell’esposizione dei malati, messi in scena secondo le aspettative e gli schemi del medico curante. Lui lasciava parlare i degenti, li trattava con garbo, li invitava ad interagire. Riconosceva il debito verso Freud. Freud per primo aveva sottolineato che l’altro è strutturalmente parte di me, il perturbante (Das Unheimliche). L’altro in me mi crea disagio, sfugge al mio controllo, ma insieme muove e sostiene il desiderio. Identità irrisolta, insieme a casa e in esilio. Ma dobbiamo portare l’altro in noi o sopportarlo per un’identità sempre aperta.

Sintesi della relazione diClaudia Baracchi
IO E' UN ALTRO
Auditorium Liceo Mascherononi di Bergamo, 6 maggio 2025 
all'interno del Programma Noesis 2024/2025

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