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La pittura ha spesso interpretato questa parola thauma che è alla radice della filosofia con il sentimento che coglie l’uomo nel suo rapporto con la natura: un sentimento di stupore e meraviglia, di sgomento e fragilità.

Una natura da contemplare, avvolgente, che ha significati religiosi è quella di Caspar David Friedrich (1774-1840), il pittore tedesco famoso per il Viandante sul mare di nebbia, vero e proprio manifesto del movimento romantico, come per Donna al tramonto del sole e per il più enigmatico Monaco in riva al mare dove la figura umana non ha riferimenti precisi e si perde nella natura tra cielo, mare e terra.


L’uomo rinascimentale ha una nuova coscienza di sé. Lo esprime nel ritratto e negli autoritratti che sottolineano sicurezza e forza creativa che sa dare alle cose. Nell’acquarello La grande zolla Durer mostra un tappeto erboso, tanti fili d’erba di piantaggine, tarassaco, graminacee, come fossero una foresta intricata. Il chiaroscuro, le ombre, la profondità assumono l’aspetto di macrocosmo e conferiscono alla realtà minuta la monumentalità di un soggetto sacro

Già gli artisti del tardo gotico guardavano con occhi nuovi e incantati il mondo fuori. A Trento nella Torre Aquila, accanto al Castello del Buon Consiglio, sede dei principi vescovi, è raccontato il Ciclo delle stagioni (1397). E’ opera di un certo Magister Venceslao, pittore di probabile origine boema. Il suo è un prezioso documento di vita cortese e insieme del mondo servile e contadino. Si narra del miracoloso susseguirsi delle stagioni. Si inizia con gennaio in un paesaggio imbiancato dove un gruppo di nobili si diverte lanciandosi palle di neve mentre c’è chi per procacciarsi da vivere si dedica alla cacciagione. Si passa alla mite primavera, i primi lavori nei campi, il contadino con l’aratro o l’erpice, le dame che passeggiano, i cavalieri a corteggiare, e via via il taglio delle messi, la raccolta dei frutti, con le botteghe artigiane del fabbro o del mugnaio, i passatempi degli abitanti della corte, tra tavole imbandite, tornei e falconeria. La natura cambia e si rigenera nella varietà dei suoi colori e nel ripetersi dei rituali.

Suscita meraviglia il Taccuino di disegni conservato alla Biblioteca Civica Angelo Mai, attribuito al maestro Giovannino de Grassi, architetto del Duomo di Milano (fine secolo XIV) e straordinario miniaturista. Suo è il fantasioso alfabeto figurativo. L’artista manifesta in esso un forte realismo che supera la tipologia dei bestiari medievali e testimonia uno studio personale e una propria autonomia estetica.

Al sentimento di sorpresa e di paura si collegano certe raffigurazioni popolari come l’homo selvaticus di Sacco, una località della Val Gerola in Valtellina. Sul cartiglio è scritto: ”Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ghe fo pagura”. Questa tipologia iconografica ampiamente documentata nelle nostre valli si riallaccia a quella classica e sacra delle raffigurazioni di santi popolari, presentati in abiti dimessi, abitatori di luoghi deserti, modelli di valori religiosi e grandi intercessori presso la divinità che alleviano i mali e sostengono nel travaglio quotidiano della povera gente. Pensiamo ai vari Sant’Antonio Abate o San Rocco.

Altro sentimento susciterà, ormai in pieno Rinascimento, l’Altare di Isenheim (1512) commissionato dall’arcivescovo di Magonza a Matthias Grunewald, un capolavoro assoluto. Si tratta di un polittico a più pannelli che si apre a diverse scene secondo le ricorrenze liturgiche dell’anno. Si trovava nell’ospedale che ospitava epilettici, lebbrosi, malati del “fuoco sacro”, di sifilide, appestati nelle frequenti epidemie. Un’opera di straordinaria bellezza e di valore religioso. Il grande complesso pittorico aveva la funzione terapeutica e consolatoria; accompagnava il malato nella speranza di guarigione e nella fede della salvezza. Guardiamo la prima scena, quella immediatamente visibile, la Crocifissione. La Madonna ha il volto ripiegato all’indietro, contenuta nel dolore, le mani serrate, e il discepolo Giovanni compartecipe la sostiene, mentre la Maddalena protende drammaticamente le braccia. Il Battista accanto indica il Salvatore. A lato, statue viventi, i due santi, Sebastiano che sopporta stoicamente le lacerazioni delle frecce e Antonio simbolo di fedeltà e devozione, saldo nella fede e indifferente al furore distruttivo del demonio. Un’opera di sconcertante espressione del dolore, potente atto di fede.

La natura è matrigna e con le sue forze sovrasta l’uomo evidenziandone la fragilità. Così vuole esprimere l’opera che Tiziano, all’apice della sua carriera – dello stesso anno 1548 è il Ritratto di Carlo V a cavallo –  realizza per Maria d’Ungheria, sorella dell’imperatore, per il Castello di Binche a Bruxelles. Si trattava di quattro grandi tele di argomento mitologico raffiguranti i condannati che osarono ribellarsi al volere degli dei: Tizio, Sisifo, Tantalo, Issione. L’allusione politica ai principi protestanti organizzati nella Lega di Smalcalda è inequivocabile. Non tutte le tele si sono salvate. Quella di Sisifo è tuttora conservata al Prado di Madrid. L’uomo condannato per la sua temerarietà e mancanza di scrupoli è destinato a trasportare un enorme masso alla cima del monte. Tiziano lo mostra nell’oscurità degli inferi, curvo mentre arranca con le braccia muscolose, i piedi puntati che brancolano. Giunto alla meta, come attratti da una forza misteriosa, uomo e macigno rotolano a valle e tutto deve riprendere da capo. Protagonista assoluto è il colore che dà forza e espressione al mito.  


Sintesi di Mauro Malighetti della lezione di G.F.C. Villa alla Chiesa di Borgo Santa Caterina (11 gennaio 2021) nell’ambito della programmazione di Noesis


di Giovanni Carlo Federico Villa:

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