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Vi racconto Melzo, senza pretese, come si può capire in mezza giornata. Partiamo dal nome Melzo una volta Melpum, sicuramente città romana, forse etrusca come mi accenna un signore al tavolino del bar mentre sorseggia il suo aperitivo. Son venuto dalla Rivoltana, la strada che da Rivolta d’Adda, in territorio cremonese, porta a Milano zona Idroscalo.

Sono entrato da una delle due antiche porte rimaste, Porta Lodi, una torre a mattoni rossi appoggiata ad un caseggiato di ordinaria fattura. Segnava il passaggio all’antico borgo. L’altra è Porta Milano con lo stemma del Comune che dal 1952 ha il titolo di città. Mi sono inoltrato seguendo la serie continua delle case secondo un percorso a tondo. La via prende respiro in prossimità di un tempietto a forma ottagonale, l’Oratorio di Sant’Antonio (da Padova) che apparteneva alla Confraternita dei Battuti un movimento che destò non poche preoccupazioni alla autorità religiose e civili.

Poco distante è la Chiesa di Sant’Andrea che per trovarla aperta e avere la visita guidata bisogna attendere la domenica. Dentro ci sono affreschi di scuola leonardesca, uno che rappresenta l’assassinio di Galeazzo Maria Sforza (1487). Il figlio del Capitano Francesco Sforza era uomo colto ma avventato nella conduzione della cosa pubblica. Arrogante e crudele non poteva che fare quella fine, pugnalato da alcuni nobili milanesi. Pare che in questa chiesa sia stato rinvenuto il suo teschio.

 Di fronte c’è la Biblioteca, moderna, accogliente, a orario continuato; una fortuna, perché posso avere delucidazioni e informazioni. Più avanti la strada è transennata: un pauroso incendio di qualche settimana prima con quattro famiglie sfrattate. Passano le rondini radenti – anche loro sfrattate? –  e in terra i mozziconi di legno bruciato. Mi dicono: “è la solita questione delle canne fumarie”. Una larga piazza con la fontana e al centro il gruppo scultoreo di Aligi Sassu, due cavalli in lotta. Solitaria rimane la Torre civica che era il vecchio campanile della Chiesa di S. Ambrogio poi demolita.

La piazza si prolunga e l’accompagnano due suggestivi porticati. Al centro s’innalza la colonna di S. Alessandro. Il Santo, martire sotto l’Imperatore Massimiliano prima di essere decapitato a Bergamo, si era acquartierato nelle vicinanze. Faceva parte della legione tebana che veniva da Alessandria d’Egitto. La Chiesa a lui dedicata insieme a Santa Margherita, altra martire, fu rinnovata alla fine del Quattrocento in stile gotico lombardo. C’è un suggestivo Cristo morto nel lenzuolo sorretto da due pietosi angioletti.

Sulla facciata è la segnaletica di un nuovo cammino, quello di San Giovanni. Mi spiega il giornalaio che si tratta di un’iniziativa recente che unisce la pratica religiosa del pellegrinaggio con la volontà di valorizzare le bellezze naturalistiche della Martesana e del Lodigiano. Si raggiunge il Santuario di San Giovanni al Calandrone, nome del torrente che vi passa, una zona piena d’acqua e di sortite, salvo in tempo di siccità come quello appena trascorso”.

Venendo ho intravisto un’area in degrado. Una serie di caseggiati bassi, a forma di serra, qualche torretta o blocchi che s’innalzano con scale esterne, tra un verde che tutto divora e dovunque si espande, alberi che escono dal tetto, terrazze a filo degli arbusti, rampicanti che svolazzano. Un felice habitat per animali e volatili e nuovo laboratorio della biodiversità. “Sono le porcilaie della Galbani. L’azienda ha chiuso e tutto è andato in abbandono”. Si succedono proposte di riqualificazione. La Galbani veniva dalla Valsassina e aveva dato al suo formaggio il nome di “Bel paese”, preso dalla celebre opera di geografia dell’abate Antonio Stoppani. Il caseificio di Ballabio era nato sul finire dell’Ottocento e aveva trovato la sua sede a Melzo, in una cascina di proprietà dei Trivulzio che in centro avevano il loro Palazzo. Aveva resistito cento anni prima di essere assorbita da altri proprietari.  

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Link utili:
Comune di Melzo
Mangiare a Melzo


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