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Verso San Simone in Valle Brembana partendo da Bergamo con un cielo grigio, affidandosi alle webcam delle zone sciistiche: è tutto sereno tranne lo strato di nubi sulla pianura. Tornando troveremo una turbolenza; anticipo del giorno della Conversione di San Paolo, il 25 gennaio, secondo il proverbio “Paol convers el ne fa de ogni ers”?

A Valnegra c’era un collegio, intitolato al Vescovo Bernareggi. L’edificio quadrangolare è visibile dalla strada. Oggi ha il nome della donatrice, Francesca Gervasoni, che lasciò la sua casa purché si facesse una scuola per i ragazzi della valle. Presto si aggiunse il convitto per accogliere chi veniva da lontano. Si legge oggi la dicitura Istituto di scuola musicale.

 La vecchia strada s’incunea nell’abitato con la piazzetta tra la fontana, la ripa che sale stretta tra le case, quella che scende con il sottopasso. Certi usci sulla via conservano un’antica signorilità. Le nostre voci risuonano, sole. Richiamano da una finestra l’attenzione di un gatto che allunga il collo presto invitato dalla padrona a non fare il matto. La signora si ritrae, lui insiste per assapora la novità.

La Chiesa è dedicata all’Arcangelo Michele, con il porticato a valle. A lato del sagrato una solitaria colonna sormontata dalla croce che fa pensare alla peste.

Le cime sono innevate, il sole fa capolino dalla cresta e sorvola il tetto della chiesa. Al sole orientavano le chiese. I fedeli entrando erano invitati a camminare verso Oriente, in direzione del sole nascente simbolo di Cristo salvatore. Un altro detto bergamasco fa “San Michel al porta ol cadeler, San Giosep al la porta ‘dré”, un Santo porta la candela l’altro la riporta indietro. Le rispettive festività erano rispettivamente all’inizio dell’inverno e della primavera.

La Chiesa è ariosa, un barocco sobrio e luminoso. Sulle pareti laterali in prossimità dell’altare due nicchie protette da grate conservano un campionario di reliquie, belle e preziose, di forme variegate, da museo. Qui richiamano atti devozionali.

La valle prosegue restringendosi, dalle rocce pendono candelotti di ghiaccio. Superata Fondra si trova un ponte “alla romana” e vien voglia di fermarsi. Il cartello lo dà come Ponte dei Canali con la data 1715. Oggi si fa fatica a capire la funzionalità di un passaggio che si perde nel bosco.  Evidentemente la strada che saliva dal fondovalle non corrispondeva a quella attuale. Allora era mulattiera o via dei mercanti; saliva dall’altro lato come di là si trova la Chiesa di Fondra, oltre un altrettanto suggestivo ponte.

Trabuchello e poi Branzi dove voglio rivedere la cascata che dalla strada per salire a Foppolo, quando il pensiero era solo quello di sciare, meravigliava così immobile e ghiacciata. L’acqua scende con le sue trecce biancastre ma di ghiacciato c’è solo la stradina, ricoperte di lastre di ardesia. Sembra uno spreco ora che quel materiale è diventato una preziosità nell’arredamento. Lo si vedeva sulle case a far da tegole perché resistenti all’acqua e al gelo. Allora era tipico, quasi retaggio del passato montanaro e contadino.

Nei pullulavano le cave, piödere. L’ardesia si era formata nel lontano passato per sedimentazione della fanghiglia di un bacino lacustre. Si lavorava la roccia che si sfaldava con una certa facilità con martello e scalpello, e con arte. scalpello. E’ rimasta l’ultima cava sulla strada per Carona e un deposito è all’inizio del paese, con un nome, Midali, che si incontra nelle cronache quando Venezia concedeva il diritto di estrazione.

La Chiesa di Valleve è la porta del paese e dà il benvenuto. Chiusa. E’ dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Bisogna accontentarsi di fotografie. E’ bella come la maggior parte delle nostre chiese. Il Brembo, ramo sinistro, passa sotto, tra massi che paiono gettate da giganti.

La strada prosegue fino alla deviazione di Cambrembo e l’immancabilesolitariachiesetta (a S. Elisabetta) che “in alto svaria” direbbe Pascoli.  Si va nel verde dei pini, ultime sentinelle del bosco. La carreggiata è sgombra, l’asfalto in buon stato, la neve ai lati da cornice e non più muraglia quando i paletti di legno indicavano l’altezza e si procedeva in fila trattenendo il fiato per la paura di scivolare o incontrare qualche macchina messa di traverso.

 Il paesaggio si allarga alla fine, il bianco luccica, il manto nevoso ha tutto coperto e reso uniforme. Qualche macchina c’è sull’ultimo piazzale, qualcuno mette le ciaspole e si dirige per la Baita del Camoscio. Neanche mezzoretta a passo tranquillo. Ma un gelido venticello ci ha fatto desistere.


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