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Visitare un luogo e scoprirne altri, così a Nembro per il Santuario dello Zuccarello e trovare un Museo a cielo aperto sulla tragedia di Marcinelle e la realtà della miniera.

Il testimone di quella tragedia è Lino Rota. Faceva parte della squadra della sicurezza. Fu chiamato quella mattina dell’8 di Agosto 1956. Si era verificato un incendio nell’ascensore e i pozzi erano rimasti isolati. Con le fiamme si diffuse il fumo. Non ci fu scampo per 256 minatori. La più parte di italiani, molti abruzzesi. Rota si è impegnato per un’opera “non dimenticare”. Non solo ricordare l’evento che puntualmente ritorna sui  media nell’anniversario, ma anche la vita, le fatiche, i pericoli di quel mestiere, le famiglie coinvolte, il bisogno di lavoro che spingeva tanti a partire.

Il Museo della Miniera è stato allestito dalla famiglia Rota e sostenuto dai nembresi. Si focalizza sul fenomeno migratorio che nel primo dopoguerra coinvolse le nostre valli. Una tradizione le spingeva oltre le Alpi, mentre chi abitava in pianura cercava a Milano. Uno squarcio sul minatore, sempre un po’ visto come uomo dell’oltretomba. Le tecniche oggi però sono cambiate, come il lavoro in fonderia. Si parla del carbone, la pietra che si è cominciato a estrarre con l’avvento della industrializzazione, non soltanto per scaldare come da secoli si proponevano i carbonai che ricavavano combustibile dalla legna. Si cercava invece il fossile, la roccia che si era formata milioni di anni prima da alberi giganti degradati e inghiottiti nella terra ancor prima dell’avvento dei dinosauri. 

Lo scopo è didattico: dal carbone segno di progresso alla vita del minatore con la sua famiglia che parla di solidarietà e sofferenza. Da qui dovrebbe nascere un museo vero e proprio.

Alla mulattiera che sale al Santuario si collega il sentiero, a scala, ricavato sulla scarpata dietro il Museo. Sul percorso tradizionale sono distribuite cappelle dei Misteri del Rosario, ingrandite e ritoccate da precedenti tribuline del ‘600, all’ombra, che di questi tempi è gradita, tra alberi di nocciole, qualche castagno o sambuco. Un gruppetto che ci precede si ferma a raccogliere qualche frutto selvatico. In un quarto d’ora si sbuca sul parcheggio del Santuario.

A mezza costa la Chiesa nacque come parte di un castello appartenente alla famiglia Vitalba, longeva e influente, se è corretto il mio collegamento a certi Vitalba che nell’Ottocento fecero una cospicua donazione a Calolzio – ed è rimasto a ricordo una via Vitalba – per i poveri del paese.

Il Santuario non reclama particolari apparizioni della Madonna. Con il tempo i fedeli ne hanno fatto un luogo di pellegrinaggio e di novene secondo l’intraprendenza dei parroci. Un’unica spaziosa navata ci accoglie. Sull’altare la Pietà attribuitaad un pittore del Cinquecento con il giovane apostolo Giovanni ai piedi che ci guarda; a lato la Visitazione del Cavagna; all’altare laterale una Natività di Enea Salmeggia detto il Talpino mentre gli affreschi recenti che ornano la struttura architettonica sono del nembrese Giovanni Rodigari.

E’ trascorso il giorno della festa. Sono sparpagliati gruppetti o coppie di amiche, sotto l’arco, al riparo sulle panche contro il muro o sotto gli alberi del sagrato. Si conversa, pacatamente, assaporando la brezza.

Si guarda il paese, la trafficata provinciale, il movimento inarrestabile di moto, macchine, camion, alle prese con curve e incroci, ponti e rondò, donde giungono attutiti i rombi dei motori e i suoni dei clacson. Più vicino si riconosce la vecchia strada che s’incunea tra le case continue. Mi indicano la Chiesa di San Nicola da Tolentino, parte del Convento agostiniano, il cui interno è arredato di cornici, volte e capitelli con stucchi in gesso di gusto barocco; poi l’adiacente nuovo Museo delle pietre coti, la Chiesa di Santa Maria in Borgo quasi nascosta tra le case ma sempre aperta, prima di arrivare all’attuale e magnifica Parrocchiale di San Martino. “Ce n’è da vedere qui a Nembro!”.

Restano deserti i tavoli, silenziosi i tendoni, pronti per il daffare e il chiasso delle feste serali.


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