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Voi, saggi, fissi nel sacro fuoco di Dio,
come incastonati in un mosaico d’oro,
uscite roteando dal sacro fuoco,
insegnate alla mia anima il canto.

Così scriveva Yeats raccontando il suo incontro con le icone, ed è alle icone che è dedicata una impedibile mostra a Punta della Dogana. Dove se non a Venezia, porta dell’Occidente sugli ori di Bisanzio, poteva essere costruita una mostra che affondasse le mani nell’arte contemporanea per disporla a ventaglio in dialogo con questo tema, complice una straordinaria collezione costruita nel tempo?

In un allestimento che vuole evocare delle cappelle (ma lo spazio per chi frequenta Punta della Dogana resta sempre forte e non dissimulabile) i fili che intrecciano il tema alle opere sono molteplici. La materialità dell’opera negata dalla luce che la trasfigura (Fontana, Pape), le iconostasi di quadrati (Ryman), associati a numeri e spazi quasi liturgici (Opalka) o a pareti divisorie (Kosuth che restituisce il dialogo Satre – De Beauvoir), quando non associati a evocare una croce (Judd).

Potente il Christmas di Dahn Vo, dove l’orma degli oggetti sacri viene esposta, passando dalla funzione di protezione al destino di scomparsa, L’immagine si fa porta o finestra nello specchio di Hammons e nella Bandiera americana crivellata che cela una Madonna con Bambino sempre di Vo. Infine (ma questa è solo una veloce selezione) il Philosophical Nail di Byars in cui l’oro carica di valore un chiodo aprendo evocazioni e trasfigurazioni e il Cristo in valigia (ma il titolo è Untitled), diviso a metà come un teatro di magia, o per essere portato dove non si può. Ammetto di avere amato in particolare Paulo Nazareth, e la piccola chiesa che diventa un organismo ibrido nel suo essere inglobata da un iroko, raccontando di viaggi, credenze, migrazioni e culti dall’Africa al Brasile, lo specchio di Hammons, che ci fa sentire stoffa e non riflesso, e la bandiera di capelli di Dekyndt, piantata a Martinica, a memoria del naufragio di una nave negriera.

Sono tre opere che si pongono come soglie tra ciò che vediamo e ciò a cui rimandano, chiedendo una verità di sguardo e un tempo di umiltà per capire di più. Come scriveva Pavel Aleksandrovič Florenskij: “L’essenza stessa della percezione geniale del mondo sta nella capacità di penetrare nel profondo delle cose, mentre l’essenza della percezione illusoria sta nel nascondere a se stessi la realtà“.

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Autore

Giovanna Brambilla

Docente universitario a contratto presso Università Cattolica del Sacro Cuore, Docente di iconografia presso MADE Program e docente a contratto presso Business School Il sole 24 Ore

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