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A distanza di un secolo cosa resta di Essere e tempo di Heidegger. Lezione di Massimo Marassi

La filosofia tedesca del tempo di Heidegger viveva ancora nel riflesso del pensiero positivista, all’insegna della scienza. E le scienze si riferiscono ad una razionalità codificata secondo leggi. Heidegger invece si rapporta alla realtà che è in continua motilità (kinesis). Il movimento descrive anche la condizione etica dell’uomo, le sue azioni. La virtù è tra gli estremi, diceva Aristotele, “né codardo né temerario”.

Heidegger fa tesoro dell’apporto della fenomenologia di Husserl. Il mondo si dà e noi ci siamo dentro. Più che rapportarsi alle cose si tratta di riflettere sul rapporto che noi abbiamo con le cose. Non è più il Soggetto che caratterizza l’uomo ma l’Esserci. Eravamo addestrati a definire l’essente, invece l’essere non si dà, semmai si apre, la via di accesso è il senso. Platone spiegava che le cose non si esauriscono nella loro visibilità; c’è sempre un oltre , un’eccedenza, che lui chiamava idea. Questo è il senso dell’essente.

Qual è il senso dell’Essere, si chiede Heidegger? E alla fine del libro lo indica nel tempo.

La metafisica tradizionale andava alla ricerca della causa. Se si dà A ci deve essere B. Si va alla ricerca della ragione delle cose, per induzione o per dimostrazione. Nel mondo contradditorio si cerca il Grund, il fondamento che si chiami logos (Eraclito), alezeia (Parmenide) idea (Platone) cogito (Cartesio) noumeno (Kant).  Heidegger invece parla di possibilità.

L’esistenza non è all’insegna della necessità secondo cui si pensa la realtà misurando, calcolando, in funzione della utilizzabilità o del guadagno. Heidegger dice: guarda il bosco e ringrazia Dio. Dall’inizio la filosofia ha considerato secondo la necessità. Parmenide parlava di essere  che non può non essere, Spinoza invece di sostanza necessaria. Per Heidegger l’esserci non è radicato al passato, è fatto in modo da aver da essere, aperto al futuro.

Heidegger aveva studiato San Paolo e in lui aveva colto il senso dell’attesa: il cristiano viveva nell’attesa e ciò lo rendeva forte, lo trasformava. Vivere tutto per ciò che sarebbe venuto. Per Heidegger il mondo dell’esserci è abitato da viventi. Non si tratta di soggetti rapportati ad oggetti, come cose a cose; la vita non richiede dimostrazione o calcolo ma comprensione e interpretazione. La temporalità caratterizza l’uomo finito, il senso dell’essere è lo stesso tempo che uno esperisce per un accadere sempre diverso.

Cosa resta allora di Essere e tempo del 1927? Lo stesso Heidegger ne trarrà un bilancio. Restava una nuova ontologia o analitica dell’esserci che non passa semplicemente dall’ente all’essere ma si costruisce attraverso un nuovo modo di essere dell’Essere: “No ad una fondazione, sì ad una comprensione.”

Kant diceva che oltre l’esperienza non si poteva andare. Giusto! ribatte Heidegger, ma l’esperienza ha bisogno di un annuncio di senso, e dipende dal modo di porsi dell’uomo nel mondo. Non contano i punti di appoggio per partire ma i punti di  direzione per giungere, in dialogo con l’Altro, con la storia. Barth parlava del totalmente altro che irrompe nell’esperienza. Il mistico Meister  Eckhart parlava di Dio che non è per dire che è oltre, oltre l’Essere.

Il tempo di Heidegger fu epoca di guerre disastrose, e i filosofi erano alla ricerca del fondamento. Lui parla di essere che si annuncia, che possa annunciarsi, per una teologia di Dio che appare.

Il lascito di Heidegger è perciò un ripensare la razionalità che non sia calcolante, che non guardi alla realtà come a disposizione, da sfruttare. La finitezza è il nostro modo di stare al mondo. Noi dobbiamo pensare e ricordare ciò che in prima istanza dà senso.

Il mondo va ripensato come possibilità, come progetto. Platone diceva:  “guardare le cose con gli occhi dell’anima”. Alla ricerca del senso come si chiede Agostino: questio mihi factus sum, io sono a me stesso un problema. Socrate non si stancava di domandare il “che cos’è” (ti es ti): cos’è la conoscenza? (Teeteto) cosa il santo (Eutifrone) o il bello (Simposio)? e non si accontentava degli elenchi che i vari interlocutori proponevano. D’altra parte nella tradizione ebraica il popolo di Israele nel deserto voleva immagini di Dio trasgredendo ripetutamente il divieto divino secondo i  comandamenti ricevuti “Non ti farai idolo né immagine alcuna” (Esodo 20). Farsi l’immagine è pensare l’altro come cosa. L’Essere si farà presente prima o poi nell’accadere. L’accadere mantiene sempre una riserva di senso. Ecco il  lascito di Heidegger: “Non vogliamo mettere le mani per Dio!”.

Bergamo Liceo Mascheroni, 2 aprile 2024

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