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Luigi Moccia, professore di Diritto comparato, fondatore e direttore del Centro studi e documentazione sulla Cina e sull’Asia orientale, ha pieni titoli per scrivere di diritto cinese e ci aiuta a capire la Cina attuale. L’ha fatto nel suo bel volume “Il diritto in Cina. Tra ritualismo e modernizzazione

L’APERTURA AI DIRITTI

Negli ultimi trent’anni la Cina ha fatto un balzo che l’ha portata ad essere super potenza. Dopo Mao, con Deng Xiaoping, la Cina ha preso la strada di una certa liberalizzazione del mercato che si è tradotta in leggi capaci di sostenere il cambiamento. La Cina uscendo dall’isolamento si è confrontata con le altre potenze non solo sul piano economico e commerciale ma anche nel campo legislativo producendo leggi e codici, sottoscrivendo dichiarazioni e carte di diritti. Qualcuno la definisce cosmesi, per altri è una svolta donde è difficile tornare indietro. Ha introdotto la competitività (“arricchirsi è glorioso”), riconosciuto regole di mercato, interessi privati, diritti d’uso, di eredità, di proprietà intellettuale o diritti d’autore, nonostante il regime sia rimasto nell’alveo del socialismo con il Partito dominante. Ha modernizzato il diritto ed ha aperto ai diritti. Lo Stato si è dotato di una classe di giudici e soprattutto di avvocati, professori e scuole specifiche. Si sono prodotte nuove prassi e richieste di garanzia prima misconosciute o ventilate.

La modernizzazione era iniziata agli albori del Novecento. Sulle orme del Giappone l’impero aveva introdotto norme dietro modelli occidentali, tendenza che si accentuò con la nascita della Repubblica e poi del governo nazionalista. La Cina comunista si fece promotrice di istanze di rinnovamento e di emancipazione delle classi contadine e popolari ma ben presto fece sentire un forte legame con il passato confuciano. Ciò influenzò il campo del diritto. Un pensiero di Mao diceva: “Per governare un paese è necessario prima governare la propria casa”.

MEGLIO CONCILIARE CHE ANDARE DAL MAGISTRATO

La tradizione cinese sul diritto ricorreva alle leggi quando il compromesso falliva. L’ufficio del magistrato era da evitare, meglio non mettervi piede. Si rischiava una procedura lunga e alla fine rischiosa, adatta più al volgo incolto che alle persone per bene. Gli stessi funzionari, selezionati non su competenze giuridiche ma su una preparazione di conoscenze generali e letterarie, più che tecnici della legge erano persone colte, filosofi che guardavano al bene comune, intervenivano più da arbitri che da giudici. Miravano a mantenere l’ordine e imporre l’osservanza di buoni costumi. Era ben visto il magistrato che sbrigava poche cause. Voleva dire che il suo territorio era tranquillo. Troppe cause lo mettevano in cattiva luce, quasi fosse un istigatore di liti. Meglio seguire la prassi conciliativa, favorire codici di onore secondo la condizione sociale. Se interveniva con la legge era per punire, non per rendere giustizia. Si trattava di raddrizzare chi non stava al suo posto, gente ritenuta rozza.

IN EQUILIBRIO TRA RITUALITA’ E MODERNIZZAZIONE

La Cina ha seguito per più di due millenni la tradizione confuciana che vede il mondo in armonia. L’armonia che regna nella natura predisposta al bene va trasferita nei rapporti umani. Il mondo non è diviso in parti contrapposte e irriducibili, con valori assoluti da difendere e da cui non recedere. I valori sono sentiti come molteplici e vanno conciliati, i contrasti sono da comporre, i punti di vista da accordare. Bisogna salvaguardare il valore sociale della convivenza in famiglia, nel villaggio, nel commercio e nelle relazioni sociali. Si privilegiano i buoni comportamenti, le usanze di buona educazione, i gesti rituali, non gli atti di ribellione, l’individuo che pretende ragione e accusa gli altri di colpe. Il sentimento temuto è la vergogna, perché si diventa bersaglio della riprovazione della comunità. La Cina comunista ha ricalcato in parte questa visione. Le questioni erano demandate al Partito, secondo una visione unitaria del bene comune. Gli uomini del Partito sorvegliavano più che i giudici. Si tornava all’usanza e all’unità, i doveri esaltati a scapito dei diritti.

Oggi la Cina è cambiata ma vive sul crinale tra modernizzazione e ritualità. Ha paura di una società che si sbriciola. Non riuscendo a governare i cambiamenti in atto è tentata di chiudersi, di barricarsi nella tradizione. Oppure il pragmatismo cinese prevarrà secondo l’adagio di Deng Xiaoping “Non è importante che il gatto sia rosso o nero, l’importante è che acchiappi i topi”?

Fonte immagine di copertina: Depositphotos

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