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Ricordate la scena ripresa dai Fratelli Lumière del treno che giunge alla stazione di Parigi? Quando la proiettarono, gli spettatori si ritrassero sgomenti. Non conoscevano la tecnica cinematografica. Ecco la decostruzione: conoscere cosa sta dietro a ciò che si presenta. Jacques Derrida era nato ad Algeri (1930). Studiò a Parigi dove si appassionò di filosofia. Ottenne una borsa di studio per l’Università di Harward. Nel 1967 ebbe notorietà con un’opera (Della grammatologia) che inaugurò quel nuovo atteggiamento filosofico, il decostruzionismo. Non era un atteggiamento nuovo, l’avevano praticato Marx, Freud, Nietzsche detti maestri del sospetto: dubitavano di ciò che appare, sia esso una struttura, un’emozione o una tradizione. La novità fu nel coniugare il pensiero classico con l’attualità, Platone e la televisione.

Di fronte a una società che vedeva l’affermarsi del cinema e della televisione, della pubblicità e delle immagini e dove la scrittura sembrava venir relegata a ruolo marginale, con la crisi di libri e giornali, Derrida sottolineò l’attualità insostituibile e inarrestabile della scrittura intesa come traccia. Vivere è lasciare traccia. Vivere è misurarsi con la morte (Heidegger) e quindi con la possibilità di sparire. Per far fronte a questa minaccia l’uomo inventa un’impresa, cerca una successione, edifica monumenti, crea opere, lascia scritti, organizza archivi, progetta sistemi di scrittura e di registrazione. C’è una curiosa miniatura medievale (Oxford Library) con due personaggi, Socrate e Platone, uno detta l’altro scrive. Si direbbe che è Socrate che detta, anche perché è il maestro, invece no. Platone, come suggerisce il nome sopra, detta, Socrate scrive. E’ più importante la scrittura, come se la scrittura precedesse la parola.

Non si è forse ripetuto nella trasformazione del telefonino? Sembrava il trionfo della parola e dell’ascolto, poi sono prevalsi messaggi e informazioni. Pensate a dove vi trovate, poniamo in una sala di conferenze. La sala c’era prima di voi e resterà dopo che voi, una volta ascoltata la lezione, uscirete. La presenza è definita in base all’assenza, a ciò che è più o meno presente: la mia presenza si definisce in riferimento alla sala che è più presente di me. Così io mi pongo nel mondo: io sono presente in quanto sono arrivato in questo determinato mondo da dove me ne andrò un giorno. La presenza è determinata dall’assenza così come l’eternità dalla caducità.

L’uomo cerca l’immortalità e la scrittura permette all’uomo di non morire. Derrida raccontava una barzelletta. Nella fattoria degli animali si decide per un giorno di picnic. Una mattina gli animali partono. Camminano per un po’ finché trovano un bel posto dove potersi fermare e fare il picnic. Si rendono conto però di aver dimenticato l’apriscatole. Nell’incertezza generale la tartaruga si offre di tornare alla fattoria a condizione che tutti non toccheranno cibo prima del suo ritorno. Tutti sono d’accordo. Passano le ore, arriva la sera e la fame si fa sentire. Discutono. Alla fine il cane, in attesa del ritorno della tartaruga, propone un semplice assaggino. Si trovano presto d’accordo. Mentre si apprestano a toccare il cibo viene dal fondo del prato una voce: “Guardate però che se incominciate a mangiare io non vado a prendere l’apriscatole!”.

Cosa ci insegna? Nella vita umana c’è un equivoco: siamo esseri finiti ma coltiviamo il sogno dell’infinità. Lo stesso equivoco degli animali che discutevano e decidevano come se la tartaruga fosse già partita. In realtà era ancora lì. Secondo gli insegnamenti dei grandi filosofi – bastano i nomi di Socrate e Montaigne – l’uomo deve imparare a morire. Una tecnica di sopravvivenza è scrivere e trasmettere il sapere. Scrivere era stato l’invito dell’amico e maestro Foucault.  “Ma non ho idee!” rispondeva Derrida; e Foucault: “Scriva, scriva! Le verranno le idee”.  Infatti Derrida scrisse un centinaio di libri.

Far filosofia è come essere in perpetuo viaggio. Anche qui Derrida aiuta con un paragone, quello della cartolina postale. Una volta scritta, va imbucata, messa nel sacco, portata al centro di smistamento, assegnata alla casella di riferimento, presa e recapitata dal postino. Finalmente è letta. Tra il momento della scrittura e quello della lettura è in viaggio. L’essere del filosofo è stare in viaggio. La realtà è mutevole, non c’è la sicurezza delle teorie stabili.

Scrisse una lunga introduzione al testo di Husserl L’origine della geometria (1987). La geometria è pura idealità, una scienza che sembra sospesa in cielo. Immaginiamo il primo teorema e lo scopritore, poniamo Talete. Avuta l’idea, come conservarla e trasmetterla? Semplicemente scrivendola. Fa parte dell’idea stessa la necessità di essere salvata e scritta. La scrittura garantisce la stessa esistenza dell’idea.

Derrida attraversò il ’68 senza esserne toccato. Nondimeno fu attualissimo. In contatto con Sartre, Foucault, Althusser, Deleuze, Habermas, le sue idee suscitarono polemiche, discussioni. Nella diatriba a proposito dell’adesione di Heidegger al nazismo sosteneva che l’errore del filosofo tedesco fu quello di cedere all’esaltazione dello spirito senza calarsi nelle condizioni materiali della vita. L’insegnamento viene anche dalla tragedia di Amleto, all’inizio, quando sta per incontrare lo spettro del padre. Nel monologo dice “il mondo è uscito dai cardini” come a dire: è un mondo che non si rende conto delle sue origini. Essere ancorati alla materialità dell’esistenza è un impegno etico: decostruire per renderci conto del mondo.

A cura di Mauro Malighetti (tratto da una lezione di Maurizio Ferraris, Raiscuola)

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