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Luis Sepulveda era nato in Cile, quella splendida lunga lingua di terra che dall’arido Deserto salato di Atacama, coronato da perfetti coni vulcanici come il Licancabur circondati a 4.400 metri d’altitudine da lagune salate e colorate dove i fenicotteri cercano cibo, si srotola lungo la Panamericana e la Cordillera fino a Punta Arenas, terminale cileno della Patagonia, e dopo aver attraversato lo Stretto di Magellano, arriva alla Terra del Fuoco. E poi sei alla Fin del Mundo. 4.300 km di spettacolo della natura, passi dal Tropico del Capricorno all’avamposto dell’Antardide, sperimenti tutti i climi e i paesaggi. Sepulveda era nato 400 km a nord di Valparaiso, la città-rifugio di Pablo Neruda, un monumento della cultura cilena e mondiale. Neruda trovò la morte al tempo del golpe di Pinochet, Luis Sepulveda l’ha trovata oggi, al tempo del coronavirus, secondo l’abusata parafrasi del titolo del romanzo di un altro grande scrittore sudamericano, Gabo Marquez.


Con Gabo, Neruda, Galeano, Fernando Solanas, Abel Prieto, il Cardinal Romero, Helder Camara, e tanti altri appartiene a quella stirpe di sudamericani che hanno tentato di riscattare (e per un certo periodo riuscendovi) il loro continente dal ruolo imposto e subìto di “cortile degli Stati Uniti”, secondo la definizione di Kissinger, per cercare una strada indipendente e ridare una dignità spesso sconosciuta all’America Latina: lottò per i diritti umani, abbracciò le cause dei più deboli, combattè con l’amico Chico Mendes (poi ammazzato da due rancheros) a difesa della causa dei seringueiros amazzonici: fu oppositore della pervasiva invadenza americana e del famigerato “Piano Condor” di marca CIA, al golpe di Pinochet venne catturato, imprigionato e torturato per sette mesi, mentre la moglie Carmen Yanez sperimentò i trattamenti di Villa Grimaldi a Santiago, criminale equivalente dell’Esma di Videla a Baires pochi anni dopo: seviziata e creduta morta, venne abbandonata in una discarica. Costretti all’esilio, Sepulveda affiancherà gli indios shuar dell’Amazzonia equadoregna, poi sarà coi sandinisti in Nicaragua contro Somoza, fino alle battaglie ambientaliste con Greenpeace.


Sepulveda e gli altri, sono voci di un continente che non si è rassegnato ad essere desaparecido, che ha cercato una via latinoamericana diversa, basata su vincoli di fratellanza tra i popoli del Sur, culminata nell’esperienza dei mille giorni del governo Allende, giorni di festa tra fratelli latinoamericani soffocata nel sangue dalla CIA. Per Simòn Bolìvar l’America Latina era il continente della speranza, la speranza che a quelle latitudini è ancora in attesa. Tante vene dell’America Latina sono ancora scoperte, come denunciò Galeano dalla sponda uruguaiana del Mar del Plata. Sepulveda non fu mai “embedded”, ovvero piegato alla volontà dei potenti in cambio di protezione, secondo la locuzione della neolingua contemporanea, ma rimase sempre “engagé”, militante, secondo la definizione in uso ai tempi di Sartre e Camus. Washington al posto di Parigi, Usa al posto dell’Europa. Anche questo è un segnale dei tempi, la cultura ha seguito il potere e il denaro, Sepulveda, hombre vertical, romantico e inattuale, ha seguito la responsabilità dell’impegno civile a difesa della giustizia sociale e degli ultimi.

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