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Continuiamo a leggere i classici e a studiarli. Così i medievali trascrivevano Cicerone, Ovidio, Seneca; Poliziano scriveva epigrammi in greco. La scuola ci ha trasmesso ancora la lingua con la quale Virgilio parlava all’imperatore Augusto e gli leggeva il suo poema. La cultura classica è parte della nostra educazione, non per altri popoli. Gli antichi greci e latini ci sono vicini ma con le dovute diversità. Perché la loro religione non è più la nostra, loro politeisti noi monoteisti, noi esclusivisti e reduci da conflitti religiosi, loro pronti a riconoscere divinità nuove e straniere – le legioni romane portano a Roma i culti stranieri per Cibele o per Castore e Polluce – o a equipararle alle proprie, per cui Atena diventa Minerva. Così è stato per il diritto, la famiglia, la morale. Gli antichi nostri maestri? Si, senza santificarli.

Abbiamo ereditato il diritto romano, come hanno evidenziato scoperte recenti. Le Istitutiones di Gaio sono state rinvenute in un palinsesto a metà dell’Ottocento. Sono la codificazione del diritto romano vigente nel II d. C. Leggendolo ci accorgiamo di somiglianze e di fratture rispetto al nostro diritto. Qui gli uomini sono divisi in liberi e schiavi, essendo la schiavitù un dato strutturale della società antica, lo schiavo considerato una cosa. Il latino liber (libero) ha la stessa radice del corrispondente greco eleuteròs ed indica la condizione di chi non è costretto e perciò ha i diritti del cittadino e di partecipare alla comunità. Il termine servus invece non ha termine equivalente nel greco (dulos). Probabile che venga dal nome di un popolo sottomesso, come il nostro “schiavo” che ci è giunto attraverso la popolazione degli slavi la cui sottomissione divenne proverbiale.

La parola barbaro è invenzione dei Greci, barbar colui che balbetta, usata in senso di scherno, parla in  modo incomprensibile. Lo usa anche Seneca nei riguardi dell’imperatore Claudio, per ridicolizzarlo. Indicò poi chi è incivile, crudele, selvaggio. Euripide diceva che era giusto rendere schiavi quei popoli perché inferiori. Ma ci fu chi ne relativizzò il senso: “noi a volte ci rendiamo barbari con gli altri”.  Inoltre il barbaro viene anche ammirato per la fierezza, il coraggio, la sua natura indomita. Poteva indicare semplicemente lo straniero.

I Latini per straniero non hanno una parola corrispondente alla nostra. Avevano altri termini come extraneus, peregrinus, advena, hostis. I Greci ritenevano barbari i Latini, li indicarono con la parola graecus anziché con ellenos come per lo più erano chiamati. La parola graecus nel linguaggio comune assume a volte un connotato negativo e forse i romani l’avevano ricavato da qualche particolare popolo dell’Epiro.

Roma ha il suo mito di fondazione nella storia di Enea. Si tratta di un fuggiasco alla ricerca di un luogo per stabilirsi e rinascere. Il discendente Romolo per la sua nuova città raccoglie gente da ogni parte. A loro offre asilum, un luogo di immunità. Ciascuno porta una zolla della sua terra che getta nella parte segnata e delimitata. Tutto viene rimescolato: si vuole creare un popolo nuovo. “La forza della nostra civiltà è essere mescolati”. L’imperatore Claudio quando nomina senatori gallici per contrastare il malumore insorto così giustifica la scelta: “anche noi siamo stati governati da Tarquinio l’etrusco, disprezzato in casa sua eppure re e saggio per noi”. I Romani lasciarono una porta aperta allo schiavo, una possibilità di emancipazione: poter essere liberato, diventare liberto e infine cives, cittadino, a tutti gli effetti.

Caracalla estenderà la cittadinanza a tutti quelli inclusi nell’Impero romano. I Romani svilupparono una cittadinanza esocentrica, capace di includere altri popoli che però erano stati soggiogati con la forza. A differenza delle città greche: la cittadinanza per gli Ateniesi non si dà ma si ha, solo il figlio di ateniesi può essere ateniese. Qui il mito di fondazione è la terra, su cui si nasce, si cresce e che è difesa.

Somiglianze e differenze con gli antichi da ponderare e da cui imparare.


A cura di Mauro Malighetti (sintesi di una lezione dal professor Maurizio Bettini, Università di Siena, “Libertà e schiavitù. Umanità nella cultura antica” dell’15 dicembre 2020 nell’ambito della programmazione di Noesis).

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