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Scampata alla fame e ai lavori forzati, nell’agosto 1945,  la dottoressa Lidia Curti ha potuto finalmente riabbracciare il padre novantacinquenne degente nel padiglione di medicina dell’Ospedale Maggiore di Bergamo. Era attesa con trepidazione da tutto il personale dell’ospedale che già nei giorni scorsi – su informazioni di un reduce arrivato con la tradotta precedente – stava preparando un festoso bentornato. Da 19 anni la dottoressa Lidia Curti è la farmacista dell’Ospedale Maggiore. E’ stata accolta con un omaggio di fiori nell’atrio dell’Ospedale. C’erano tutti a salutarla: medici, suore, infermiere, personale di servizio, il Padre Prevosto, il Presidente e l’Economo. Quando Lidia rivede il padre gli chiede perdono per averlo fatto soffrire, a lui che nel processo dei tedeschi aveva detto: “Se ha fatto quello di cui l’accusano, non ho che a lodarla, non siamo tedeschi noi“.

Lidia Curti era stata costretta ad abbandonare il suo lavoro in Ospedale perché deportata in Germania dopo una condanna sommaria a tre anni di lavori forzati. Ricorda che al processo, celebrato senza difensore, i tedeschi l’avrebbero graziata se avesse dichiarato di ricredersi dalle sue idee antirazziste. Non volle. E con atteggiamento fermo ammise la responsabilità del proprio operato (specialmente di aver aiutato prigionieri inglesi) del quale non avevano prove. E’ lei stessa che narra la sua odissea: dalle carceri di S. Agata a quella di Verona, e poi a Stadelheim alla Polizei di Monaco, ad Ulma, a Stoccarda, a Bruckhasal a Karlarue, e poi nel laboratorio di sartoria militare di Haghenau in Alzazia dove, dopo un mese di polmonite, rattoppò per 12 ore al giorno divise vecchie con gli avanzi di quelle ridotte a brandelli. E questo da un’idea di come fossero ricchi in Germania. Condannata a stare su un alto sgabello senza poter appoggiare le spalle.

Dal laboratorio di sartoria passa nella fabbrica di proiettili di Ebersbach au Der Fils, prima di tornare nell’assillo del lavoro a catena, poi ad una fresatrice (in considerazione del suo titolo di studio). Lidia Curti ricorda anche la tragica fine della sua vecchia e fedele domestica. Si chiamava Teresa Savio, arrestata con lei il 2 dicembre 1943 e  insieme deportate il 12 febbraio 1944. In Germania furono separate. La Savio fu inviata prima in un opificio tessile, poi in una officina di guerra. La ritrovò dopo la tormentosa giornata dei morti del 1944, passata attendendo di ora in ora l’arrivo degli americani a Strasburgo. Fatte alzare improvvisamente alle 2 di notte, viaggiarono in camion dalle 4,30 del mattino sino alle 17,30; e dovettero attendere ancora oltre cinque mesi la liberazione.

Dopo il 25 aprile furono ospitate in una casa tedesca, il cui proprietario riuscì così a sottrarsi dalla requisizione alleata delle abitazioni; quando l’ospite prof. Fritz Kaufmann, seppe che intendevano recarsi a Goppingen per avvicinarsi al Brennero, le volle accompagnare con la propria auto. Dopo soli 5 chilometri, nel tentativo di sorpassare un camion americano, l’auto cozzò a tutta forza con un altro mezzo che correva nel senso opposto. Il signore tedesco rimase ucciso sul colpo. La povera Teresa ebbe la testa spaccata e morì dopo otto giorni. Senza riprendere conoscenza ricevette l’assistenza religiosa e fu seppellita nel cimitero di Goppingen. Lidia Curti, invece, se la cavò. Dopo 5 giorni trascorsi tra la vita e la morte: aveva ferite in fronte, sulla guancia, due costole erano rotte, braccia e gambe fratturate.

Rimase nella clinica universitaria di Tubingen fino al 14 luglio. Dopo esser sfuggita ai bombardamenti spaventosi e peripezie senza fine (che attribuì all’intercessione della Madonna del Rosario di cui è tanto devota) ha potuto riabbracciare il padre e le sorelle. Della fame patita in Germania ricorda la voluttà con cui rosicchiava le ossa di cavallo alla domenica; un giorno mangiò le patate crude con la buccia; e che pantomime per potersi riserbare qualche patata all’indomani, nei giorni di festa grossa. Ella pregava però Dio per non diminuire le sue sofferenze purché i suoi famigliari non avessero mai a provare che cos’era la fame. L’ultima avventura le toccò nel viaggio di ritorno ad opera dei francesi. Arrivata a Bregenz, nella zona di controllo affidata alla Francia, i reduci furono ospitati in un lager dove, dopo aver sostato due ore sotto la pioggia torrenziale, furono visitati e spogliati di tutte le cose di valore che avevano nei bagagli. Anche del cioccolato e delle sigarette che erano nel pacco viveri della Croce Rossa Americana. Un capitano italiano, dopo aver protestato, ebbe strappati i galloni e fu schiaffeggiato da un caporale francese al grido: “Salò cochon des italiens“.


tratto dal volume “La nuova alba è anch’essa rossa di sangue e cupa di odio
Autore Osvaldo Gimondi, edito dal Centro Studi Francesco Cleri di Sedrina.

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