Biondi immobiliare

Se il Cristianesimo ha sfrattato gli dei dall’Olimpo, Marilyn Monroe è tornata ad abitarlo l’istante stesso della sua morte. Un’Assunzione pagana nelle sfere del mito pagata a caro prezzo, a trentasei anni, una notte di mezz’estate (tra il 4 e il 5 agosto del 1962) nel suo modesto appartamento in affitto in Helena Drive a Brentwood, uno dei quartieri di Los Angeles, tra Santa Monica e Beverly Hills.

Il flacone di Nembutal

La camera da letto era chiusa a chiave dall’interno. Il suo psichiatra, Raplh Greenson, con un attizzatoio infranse i vetri della finestra. La trovò nuda sotto un lenzuolo, il braccio teso verso il telefono e la mano poggiata al ricevitore. Accanto un flacone di Nembutal (vecchio barbiturico) alleggerito di 47 capsule. Comincia lì la seconda vita di Marylin, la sua scalata all’immortalità nel paradiso delle star, con quel presunto suicidio per overdose “ufficializzato” dall’autopsia condotta dal patologo Thomas T. Noguchi.

Presunto, dunque, per via di parecchi interrogativi irrisolti. Perché nello stomaco dell’attrice non c’era traccia di sonniferi? Perché Marilyn Monroe decise di togliersi la vita quando la governante e amica, Eunice Murray, la sentì ridere al telefono, mezz’ora prima della morte, con il figlio di Joe Di Maggio, il campione di baseball degli Yankees che Marilyn sposò in terze nozze? Perché non fu mai trovato quel diario, rilegato in rosso, sul quale l’attrice annotava le conversazioni con Bob Kennedy (allora Ministro della Giustizia del fratello John) da quando l’aveva rimproverata di non ricordare certi suoi “discorsi politici”? Della scomparsa di Marylin si è detto di tutto. Forse suicida, forse uccisa dalla mafia di Jimmy Hoffa o dalla Cia per incastrare o proteggere il clan dei Kennedy, forse scomparsa per errore. Ogni nuovo libro, ogni nuova inchiesta è un sasso lanciato nell’acqua che increspa, per un attimo soltanto, la superficie della verità.

Quella brutta bestia della depressione

Resta il mito di Marilyn Monroe, la femminilità per definizione. Senza se e senza ma. Sostenuta dagli inossidabili fans sparsi in tutto il mondo tra i quali Stephen Hawking, il geniale scienziato dei buchi neri e dell’origine dell’universo. Lui, che di “stelle” se ne intendeva, aveva appiccicato un poster di Marylin nel suo studio. Anche lui vorace nel collezionare i suoi primi scatti da pin-up, le uscite pubbliche nell’America che conta o le pellicole dei trenta film girati cominciando da “Scudda Hoo! Scudda Hay” del 1948 di Hugh Hebert, passando per quel capolavoro di Billy Wilder del 1955 intitolato “Quando la moglie è in vacanza” e terminando, nel 1962, con “Something’s got to give” di George Cukor. Film incompiuto perché la Fox, la casa produttrice, licenzia Marylin per i suoi continui ritardi dovuti a una depressione che non le lascia tregua.

Durante l’ultimo appuntamento con un fotografo arriva con un occhio truccato e l’altro no segno di una malinconia struggente che padroneggiava la sua intelligenza sensibile, il suo desiderio di migliorarsi, il suo protendere alla perfezione, la tendenza a non adagiarsi mai nella mediocrità. Era una donna che conosceva i propri limiti che non tentò mai di competere con le artiste più raffinate. «Accanto a Audrey Hepburn – disse – mi sento un elefante vestito di stracci». E pensare che lo star system hollywoodiano (“questo mercato che fabbrica menzogne” come diceva Bertolt Brecht) la considerava né più né meno come una “dumb blonde”, un’oca giuliva. Alcuni critici scrissero che Marilyn non era un’attrice. «Non ho mai preteso di esserlo – confidò a un amico – Molti pensano che io sia soltanto una delle tante bionde svampite del cinema. Ma non  devo poi essere tanto maledettamente svampita, se sono arrivata dove sono arrivata».

Quattro mariti e molti amanti

Di lei resta quella sua “seconda vita” che si dipana, in una leggerezza luminosa senza dolore e umiliazione, al capolinea della prima. Una nemesi sulla sofferenza patita durante l’infanzia quando all’anagrafe non era ancora la Marilyn Monroe platinata sognata dagli States (mai così “uniti”), ma Norma Jean Baker, capelli castani, nata in un ospedale per indigenti di Los Angeles il 1° giugno 1926. Un padre sconosciuto. Una madre psicopatica. Una violenza subita a otto anni nel vagabondaggio da una famiglia adottiva all’altra. A dieci anni sogna di avere come padre Clark Gable mentre dalle finestre di un orfanotrofio di Hollywood guarda le luci della RKO Pictures. Intanto il suo Dna non perde tempo in disquisizioni intercellulari. «A dodici anni – racconta – ero ancora una bimba, ma il mio corpo era quello di una donna».

Giovanissima (16 anni), forse per sfuggire alla fame, sposa un operaio ventunenne, Jim Dougherty, conosciuto in fabbrica mentre spruzza vernici sulle fusoliere degli aerei da guerra. Dopo di lui si sono avvicendati altri tre mariti (Bob Slatzer, Joe Di Maggio e il commedigrafo Arthur Miller) e un numero fluttuante di amanti tra cui Frank Sinatra, Marlon Brando e i fratelli John e Bob Kennedy. «Benché la maggioranza degli uomini la urtasse – scrive il marito Slatzer – si rendeva conto che essi erano essenziali al suo benessere personale e professionale. Nel duro mondo che affrontò da sola, dovette imparare a trattare per lo più con uomini. Essi l’infastidivano, la tormentavano, urlavano contro di lei. Prima c’erano stati i suoi “padri” adottivi; poi erano venuti gli agenti, i divi, i capi degli studi, e perfino i mariti».

L’amore per Bob Kennedy

Un uomo più di tutti intuì il disagio esistenziale di Marilyn. Lo storico Arthur Schlensinger jr. lo rivela nel suo taccuino: «Bob Kennedy con la sua curiosità, la sua comprensione, la sua profonda sensibilità per l’infelicità, riuscì a penetrare attraverso quella nuvola splendente come pochi avevano fatto». Marylin lo chiamava a Washington. Molto spesso era disperata. Sognava un matrimonio con lui (diceva che si sarebbe risposata con un “tale” che si occupava di politica) senza riuscire a rendersi conto che Bob Kennedy non avrebbe mai rovinato la sua carriera per lei. Lasciamo al poeta Mario Luzi la conclusione di questo sommario ritratto:  «... la molto chiara e concupita vamp / usata, geme, in tutte le sue pieghe, / secca in tutte le sue linfe».

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