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Lo scorso 6 febbraio i Dallas Mavericks erano 6° nella classifica della Western Conference della Nba di basket, con un bilancio di partite vinte/perse di 29/26. Soprattutto avevano in squadra Luka Doncic, capace quasi a ogni partita di mettere a referto una tripla doppia (oltre 10 tra punti, rimbalzi e assist) con punte di 60 punti segnati in una partita.

Insomma sembravano lanciatissimi verso l’accesso ai playoff, perché basta arrivare tra le prime 6 in classifica, o alla peggio verso i play in, in cui basta arrivare tra le prime 10.

Per rinforzare il concetto, i dirigenti di Dallas ingaggiarono sul mercato Kyrie Irving, un campione affermato. Il loro calcolo era semplice: Doncic segnava 33 punti di media a partita, Irving 27, (il calcolo lo ha fatto Angelo Carotenuto su la Repubblica cartacea del 12 aprile) sommando i 2 la squadra partiva con un vantaggio di 60 punti ogni volta che scendeva in campo.

La prima partita che i 2 giocarono insieme sembrò confermare le attese: la coppia segnò 51 punti (ne ha parlato il sito web di Sky, al link: https://sport.sky.it/nba/2023/02/24/dallas-mavericks-los-angeles-lakers-nba-tv-streaming) e vinse la partita.

Poi però le cose sono peggiorate.

A marzo, a 10 partite dal termine della stagione regolare, il record di vittorie era peggiorato a 36/36 (parziale di 7/10). Ad aprile il tracollo: parziale di 2/10, totale di 38/44 e 11ª posizione nella classifica di Conferenze (la classifica è visibile su sito web dell’Nba, al link: https://it.global.nba.com/standings/). Fuori da tutto.

Quella di affastellare campioni in una squadra per arrivare a vincere il titolo è una vecchia idea della Nba, e non solo. E peraltro ha quasi sempre funzionato.

Per dire, negli anni ’80 del dualismo Los Angeles Lakers-Boston Celtics, a Los Angeles giocava Magic Johnson, ma insieme a Kareem Abdul Jabbar. E Boston era la squadra di Larry Bird, ma insieme a Robert Parish e a Kevin McHale.

Negli anni ’90 vinsero 6 titoli i Chicago Bulls di Michael Jordan, ma insieme a Dennis Rodman, Scottie Pippen

Eccetera.

Vinsero titoli, negli anni successivi, anche squadroni in cui le stelle litigavano tra loro, come i Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neil, ma poi in campo erano così forti che le squadre avversarie non riuscivano a tenerli.

Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma la regola sembra non valere più, o comunque sempre meno. Basta una stella in squadra, per vincere.

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Autore

Guido Tedoldi

Nato nel 1965 nel milieu operaio della bassa Bergamasca. Ci sono stato fino ai 30 anni d’età, poi ho scelto di scrivere. Nel 2002 sono diventato giornalista iscritto all’Albo dei professionisti. Nel 2006 ho cominciato con i blog, che erano tra gli avamposti del futuro. Ci sono ancora. Venite.

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