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Il 17 giugno saranno 40 anni esatti da una delle giornate più drammatiche, e vergognose, per la giustizia e per l’informazione italiana. Quel giorno all’alba, poco dopo le 4, veniva arrestato Enzo Tortora, presentatore molto amato dal pubblico televisivo (la sua trasmissione “Portobello” raggiunse i 28 milioni di spettatori), accusato di associazione a delinquere di stampo camorristico.

Il giornalista fu trattenuto in caserma diverse ore per consentire che arrivassero tutte le troupe televisive così da poter mostrare a tutti un’orrenda sfilata del mostro con le manette ai polsi. Gaia Tortora, secondogenita del presentatore, giornalista de La7, racconta quell’arresto con gli occhi di una ragazzina di 14 anni che quella mattina doveva sostenere l’esame di terza media. Da lì parte Testa alta, e avanti, un libro-testimonianza che nelle sue 120 pagine che si leggono d’un fiato trasmette al lettore tutto lo spettro possibile delle emozioni: dolore, sorpresa, commozione, rabbia, felicità, sconcerto, amarezza.

Questa non è la storia dell’incredibile vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, dipinto come “cinico mercante di morte” da un pubblico ministero semplicemente inqualificabile, condannato in primo grado a dieci anni di carcere e poi assolto in appello e in Cassazione perché “il fatto non sussiste”. Non c’era bisogno di aggiungere altro a quel pazzesco cumulo di superficialità e imperizia, amplificato all’inverosimile da molta parte del giornalismo scritto e televisivo, quello che (allora come spesso ancora oggi) sopperisce alla propria incapacità di trovare le notizia con i verbali che inquirenti a caccia di facili riflettori elargiscono a mani basse.

Gaia Tortora ci offre squarci di quell’inciviltà dentro il racconto di come quella vicenda ha sconvolto e travolto non solo un uomo (che morirà per un tumore a soli 59 anni, la stessa età a cui è scomparsa la prima figlia, Silvia) ma un’intera famiglia. A partire da due ragazze che si sono trovate ad affrontare e gestire un tornado pazzesco. Che ha cambiato la loro vita (nel caso di Silvia stroncandogliela).

La giornalista scrive la sua testimonianza solo ora, quarant’anni dopo, perché attraversare quel deserto emotivo ha richiesto tempo e il contributo di diverse terapie psicologiche. Anche per questo le sue parole hanno un valore ancor più prezioso. Sono un memento per chi ancora oggi, dentro la magistratura e nel giornalismo, si comporta come se il “caso Enzo Tortora” non ci fosse mai stato. E sono un monito anche per tutti noi perché bisognerebbe smetterla da un lato di pensare che “se l’hanno arrestato qualcosa avrà fatto” e dall’altro di prestare fede ad un giornalismo cinico che brandisce atti giudiziari come fossero pagine di Vangelo e non si fa scrupolo di calpestare la dignità delle persone. Bisognerebbe, appunto, perché il “sacrificio” di Enzo Tortora non è servito a nulla.

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