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RaccoNatale 2022 di Guido Tedoldi

In una puntata di Ncis l’agente speciale Jethro Gibbs ritorna al suo paesello d’origine. Trova la stessa atmosfera malsana di quando era finalmente fuggito per andare all’università e poi entrare nell’esercito. Il bullo del circondario è il figlio di colui che era il bullo ai tempi di Jethro e le cose sono rimaste le stesse, soltanto posticipate di una generazione. Chi era ricco, è ricco, chi aveva un negozio, ce l’ha ancora, chi faceva lo sceriffo ha trasmesso il titolo in eredità. Quelli della vecchia generazione sono morti o sono andati in pensione, e i loro eredi continuano a condurre le stesse vite in loro vece – essendosi i vecchi semplicemente stancati di agire, sebbene continuino a trascinarsi addosso (e trascinino addosso ai vicini) gli stessi pensieri rancorosi.

Uno dei pochi anziani ancora in servizio è lo spazzino, ma perché è un ritardato mentale e quindi non si è accorto del passare del tempo. Perlomeno, questa è l’ipotesi prevalente. E siccome è prevalente quasi nessuno la mette in discussione. Nemmeno suo figlio, che lavora con lui e che, come dire, è ritardato a sua volta. Tuttavia forse la loro è una strategia: poiché sono «così» tutti si limitano a far battute e ridere alle loro spalle, o far commenti arguti che loro «non possono capire». È un piccolo prezzo da pagare per starsene in pace in un angolino, quasi invisibili.

Avevo in mente quel telefilm il giorno in cui tornai a Poffolo dopo molti anni. I motivi per cui me n’ero andato erano quasi gli stessi dell’agente Gibbs, anche se molto meno urlati. Comunque non sono andato ad abitare tanto lontano, mi sono solo… spostato un po’. Di quel tanto che mi ha consentito di stare nell’ombra e suscitare poche onde, perlomeno agli occhi di chi ha smesso di vedermi.

Il motivo del ritorno era il corso di scacchi organizzato dalla biblioteca, e di cui ero istruttore. Un istruttore di quelli concepiti da Woody Allen, secondo il quale chi sa, fa, chi non sa, insegna, e chi non sa nemmeno insegnare lo mettono a fare il maestro di ginnastica, che almeno in palestra farà pochi danni perché è soltanto sport. Ma d’altra parte Woody Allen era lo stesso che non fu selezionato nella squadra di scacchi a causa dell’altezza, per sua stessa ammissione, e quando infine riuscì a entrare lo stesso in squadra non poté partecipare alle gare a causa di un infortunio al ginocchio.

La classe era formata perlopiù da ragazzi delle scuole medie, un paio più giovani. Poi c’erano ragazzi più grandi e adulti. Più della metà di origine straniera, con colori della pelle assortiti. Erano anche quelli con più voglia.

Tra di loro c’era Vlad, ovvero Wolodymir («ma mi chiami Vlad, prof, se no voi ci mettete mezz’ora ogni volta che pronunciate il mio nome») profugo di guerra ucraino. Il più pestifero, il più interessato alle lezioni. Le quali in breve avevano acquisito un format stabile: io spiegavo alcuni concetti, nel silenzio generale; poi rispiegavo, avendo la sensazione di affogare nel silenzio sempre più profondo, davanti a espressioni del volto basite; poi Vlad alzava la mano e faceva una domanda del tutto fuori contesto, ma che miracolosamente raccoglieva i dubbi e chiariva i principi; così io potevo tirare le somme con poche parole di sollievo.

Sembrava componessimo ogni volta una poesia haiku: il primo verso per introdurre, il secondo per approfondire, il terzo per raccogliere i cocci, il quarto per definire la bellezza. E funzionava. Cioè, tornavano anche per la lezione successiva. Sembrava gli piacesse. Riuscivo a non abbattere la loro voglia di giocare.

Un pomeriggio Vlad venne al corso con il volto tumefatto e un taglio nel labbro superiore. Si era picchiato a scuola. «Ma non si preoccupi, prof, dovrebbe vedere la faccia dell’altro». Anche se poi venne fuori che l’altro sì le aveva un po’ prese, ma gli amici che si era portato dietro no. Il padre di Vlad aveva dovuto portarlo al pronto soccorso.

Gli domandai il motivo della rissa. Vlad alzò le spalle. Le solite cose. A scuola c’era un gruppo di ragazzi che si erano inventati il rito della tangente. A loro discrezione, per consentire il quieto vivere, chiedevano di essere pagati. Ogni tanto li si accontentava ma ogni tanto non si aveva voglia di farlo, e così diventavano cattivi… cioè, cattivi con le botte, non soltanto a parole come facevano di solito.

Gli altri allievi scacchisti, di ogni età, avevano presente la situazione. Conoscevano i responsabili. D’altronde i genitori degli scolari prepotenti agivano su un piano più concreto, più «adulto»: chiedevano la tangente a certe attività, certi negozi non riuscivano a rimanere aperti a lungo.

Io che vivevo in un altro paese non lo sapevo, e per il solo far domande sembravo l’anima candida che cade dalle nuvole, incapace di vedere bene quello che succede intorno.

E insomma, non era cambiato niente. I miei allievi stavano rivivendo, con i modi specifici del loro tempo, quello che avevo vissuto anche io. Incontravano quelle mele più o meno marce che attaccavano la rogna a tutte le altre.

Io avevo avuto il Rimba, ovvero il Rimbambito. Lo chiamavamo così noi che lo subivamo, lui non lo sapeva. O forse lo sapeva e per quel motivo ogni tanto era così arrabbiato, così sopra le righe. Anche se esserlo gli faceva molto gioco, per cui in realtà non gli servivano motivi o provocazioni, Inoltre non aveva bisogno di amici che lo spalleggiassero, bastava a se stesso con la possanza fisica. Non chiedeva tangenti, gridava soltanto e prendeva in giro a parole. A volte, a sua discrezione, metteva le mani nelle cartelle altrui e si impossessava di oggetti, oppure li rompeva. Alcuni ridevano delle sue battute, trovavano arguti certi suoi insulti. Altri non approvavano però facendo finta di non aver sentito, dissimulando in vari modi l’imbarazzo per la propria paura.

Ebbi il Rimba in classe per i primi 2 anni delle medie, poi lo bocciarono e furono altri a subirlo.

Il problema di Vlad suscitò una piccola discussione a lezione. Uno degli adulti propose di formare un gruppo per «dare una lezione» ai bulli. Ma quella soluzione poteva scatenare una sorta di guerra, perché poi quelli avrebbero potuto chiamare in aiuto dei loro amici. E quello che era cominciato come un pestaggio casuale poteva diventare un brutto scontro con conseguenze per tante persone.

E poi, cosa avrebbero capito eventuali osservatori esterni? Chi era il bullo tra quello che aveva pestato Vlad e lui che si era vendicato pestando a sua volta? Dov’era la differenza?

Si rivolsero a me. Nel mio ruolo di istruttore possedevo la scienza infusa degli scacchi, gioco strategico per eccellenza. Potevo dare qualche consiglio, no?

Ehm.

Peccato fossi in preda a una crisi d’afasia. Vuoto mentale. Poche idee, confuse e contraddittorie.

Anche perché gli scacchi passano per essere un gioco di simulazione di guerra – l’attività umana violenta per eccellenza. È pur vero che tante arti marziali vengono insegnate dai sensei come strumenti per evitare i conflitti.

Insomma…

Raccontai del primo campione del mondo ufficiale, Wilhelm Steinitz, il quale era disprezzato dai giocatori della sua epoca perché non era romantico, cioè si rifiutava di accettare sacrifici di pezzi che lo facessero perdere; gli davano del pusillanime perché rifiutava la bellezza artistica delle partite, ma lui voleva vincere e infatti lo faceva. Raccontai di Bobby Fischer, che dalla periferia dell’impero scacchistico, in occidente, si scagliò contro la cortina di ferro innalzata dalle squadracce dei campioni sovietici. Fischer era soltanto un ragazzino, il più giovane di tutti, e lo accettavano in gara soltanto perché era un fenomeno che si riteneva irripetibile. Invece aprì una strada che oggi moltissimi minorenni stanno percorrendo con facilità.

La classe mi ascoltava in silenzio. Ancora più in silenzio del solito.

Vlad alzò la mano, disse che i bulli gli avevano chiesto di fargli avere già compilato l’ultimo compito in classe di matematica prima di Natale, «ma gli darò le risposte sbagliate, perché tanto non se ne accorgeranno». La cosa fece impallidire un paio di allievi, che già paventavano conseguenze negative quando la professoressa avrebbe comunicato i voti.

«Ma no» rassicurò Vlad «i voti arriveranno ben dopo Natale. E comunque loro saranno soddisfatti lo stesso, perché mi avranno costretto a fare quello che vogliono».

Sospiro di sollievo.

Nessuno fece notare a Vlad che una conseguenza del compito in classe fatto male sarebbe stata, per i bulli, un brutto voto. Cioè una prospettiva concreta di bocciatura alla fine dell’anno scolastico.

Ma d’altra parte lui lo sapeva benissimo. Era quello il suo piano. Il suo terreno non era quello del menar le mani bensì quello dello studio. Lì era lui a dettare le regole, perché le conosceva. Se gli altri usavano metodi diversi, non era affar suo.

Ed era una strategia che sapevo bene anche io. L’avevo usata a suo tempo. Così il Rimba si era allontanato.

Al termine della lezione ci facemmo gli auguri. Vlad avrebbe trascorso un Natale tranquillo e un nuovo anno migliore di quello passato. Aveva lavorato per ottenerlo. Forse sarebbe stato così anche per quelli che lo avevano picchiato, se pensavano di averlo in pugno.

Avevamo trovato una soluzione per tutti, anche per coloro che non lo sapevano.

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Autore

Guido Tedoldi

Nato nel 1965 nel milieu operaio della bassa Bergamasca. Ci sono stato fino ai 30 anni d’età, poi ho scelto di scrivere. Nel 2002 sono diventato giornalista iscritto all’Albo dei professionisti. Nel 2006 ho cominciato con i blog, che erano tra gli avamposti del futuro. Ci sono ancora. Venite.

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