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In attesa che Bergamo, suo malgrado, diventi capitale culturale della Carrà, vogliamo fornire, modestamente, una riflessione non tanto ai comuni cittadini – che abitualmente subiscono scelte e decisioni calate dall’alto senza mai poter fornire un proprio contributo –  ma a coloro che le decisioni le prendono, dall’alto della loro autorevolezza (autorità) che qualcuno potrebbe scambiare per arroganza.

In particolare alla Fondazione Donizetti che, nella fattispecie, è la parte in causa. E che, nella fattispecie, appare isolata e lontana dal comune sentire dei cittadini bergamaschi. Specie coloro che lavorano e faticano nel portare avanti iniziative nel segno della cultura, spesso senza aiuti o contributi pubblici. Cittadini che sono rimasti indignati di fronte alla scelta di un’opera sulla Carrà, ritenuta assurda e fuori luogo per la nostra memoria artistica e per il nostro patrimonio di città d’arte. Ma anche per la nostra tradizione ideale e civile. Cittadini che credono nella Cultura non solo come divulgazione o divertimento ma anche come formazione e crescita di una mentalità o, nella migliore e più auspicabile delle ipotesi, di una forma mentis che faccia nascere nel fruitore necessità e bisogni collegati a valori e riferimenti comuni all’evoluzione umana del bello, del buono, del giusto.

Dell’arte, insomma legata alla vita, alle vicende umane, alle ansie e inconvenienze esistenziali. Il contrario di un’arte che fa rima solo con passatempo, effimero, edonismo. Un’arte happy hour, party like e business facile (solo per chi organizza e firma il “prodotto“). Per tutti gli altri, cioè noi:  contributi con le tasse a mantenere i suddetti o, nel migliore dei casi, acquisto dei biglietti per assistere.  Passivamente.  Così sarà per questa attesissima (si scherza) opera lirica Raffaella Carrà che tanto porterà lustro al Teatro Donizetti togliendolo dai margini ininfluenti della provincia musicale, e tanto porterà in alto il suo regista Francesco Micheli che, in omaggio all’elogio della follia erasmiana, l’ha fortemente voluta contro ogni logica culturale. Onde affermare il proprio genio brembanus. Sopravvalutato da chi lo ha scelto? Sottovalutato dai suoi concittadini? Ai posteri l’ardua sentenza.

Dimostrando, una volta tanto, che Nemo profeta in patria esigeva, nella dolce e tranquilla ancorché colta landa bagnata dal Brembo e dal Serio, una emblematica eccezione. Eccezione che farà del teatro casualmente intitolato al concittadino più illustre e tra i massimi compositori di teatro lirico,  l’ombelico del mondo del melodramma contemporaneo tutto lustrini e paillette esaltato dal media nazionalpubblicitari. E chi più ne ha più ne metta perché siamo capitale della cultura!

Ormai ci siamo. Settembre è dietro l’angolo e le masse migreranno assetate di assistere all’evento dedicato alla Carrà al Teatro di Bergamo. Nel quale teatro fervono già i preparativi e le prove per allestire uno spettacolo destinato a rimanere nella storia (loro).

Il lettore a questo punto penserà: e la riflessione annunciata in apertura?

Chiedo venia. Mi sono dilungato sulle meravigliose sorti e progressive che attendono la nostra “capitale” dopo le vacanze. La riflessione nasce dalla lettura di un recentissimo libro scritto da un celebre musicologo americano Stuart Isacoff e intitolato “Rivoluzioni musicali. Le idee che hanno cambiato la storia della musica, dal Medioevo al jazz“.

Cara Fondazione Donizetti, caro Micheli che tanto sbandierate, a torto, la rivoluzione donizettiana, leggete e meditate. Per Isacoff nella storia della musica occidentale ” … le scene furono invase da una profusione di opere indimenticabili e fra esse alcuni capolavori, ognuno dei quali specchio degli anni in cui era stato creato: dunque, fra molti ed effimeri passatempi, il brillante spirito di commedia lirica del Barbiere di Siviglia di Rossini, il lirismo di pretta marca italiana di Verdi nella Traviata e di Puccini nella Boheme, il serio impressionismo di Debussy in Pelleas et Melisande e di Ravel in L’enfant et les sortileges, le sonorità modernistiche di Bartok nell’inquietante Castello di Barbablù… ” e poi ancora Schoenberg, Berg, Gerswin, fino a Bernstein.

Donizetti non si nomina. E nemmeno Bellini. Ma nemmeno Mozart (nell’opera). Perché? Perché hanno scritto “opere indimenticabili” non “capolavori” nel senso rivoluzionario indicato da Isacoff. Ecco perché ci permettiamo di tirare le orecchie ai summenzionati protagonisti della capitale culturale. Basterebbe una analisi poco più che superficiale: Rossini, pur rifacendosi a Mozart, rivoluzionò la tradizione operistica  dando forma compiuta e insuperata all’opera buffa; Verdi cambiò ulteriormente la direzione del melodramma plasmandolo di neorealismo musicale e drammatico; Puccini sterzò con una virata compositiva dove melodia e orchestrazione si staccano dalla tradizione e dunque proiettate in una veste moderna.

Donizetti, pur avendo contribuito notevolmente a sviluppare il teatro lirico, non sconvolse né stile né forma, preoccupandosi forse più della quantità che della qualità. Non per questo meriterebbe, anche dai politici che approvano le scelte, più rivalutazione e rispetto e non abbigliandolo da bagnino nel principale monumento bergamasco alla sua memoria. Non è cultura, non è pop-art. E’ solo kitsch. Kundera docet.

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