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Al via gli Europei con l’Inno di Mameli preregistrato. E ancora il solito Bocelli …

Che c’entra la musica col calcio? Intanto c’entra perché la cerimonia di inaugurazione degli Europei 2020, l’altra sera all’Olimpico di Roma, ha avuto la musica protagonista. E poi i cori durante tutta la partita non erano che note musicali cantate all’unisono o, appunto, in coro. Ma soprattutto ancora una volta l’Italia, culla generativa della grande musica, ha dato prova di miopia artistica. Ennesima conferma che a parole si osanna la cultura e la musica, ma poi in pratica si punta al personaggio, al nome importante a prescindere. Insomma: musica ridotta a specchietto per le allodole. Come altro interpretare la pur lodevole presenza della banda nazionale della Polizia di Stato, impiegata inspiegabilmente solo per l’ouverture rossiniana della “Gazza ladra“.

E l’inno di Mameli prima del calcio d’inizio cantato da tutto lo stadio? Col disco registrato in sottofondo. Umiliante per l’arte dei suoni. Ma anche per lo spirito di patria. Alla presenza del Presidente della Repubblica. Come dire: la musica, se proprio è indispensabile, va beh, serviamocene. Altrimenti va bene tutto, qualsiasi surrogato. Questo la dice lunga anche sugli operatori musicali: professori d’orchestra, coristi, direttori. Farli lavorare e pagarli sì, se proprio è necessario. Altrimenti amen. Altrimenti tutti illustri disoccupati. Che non è altro che la sorte scontata dei circa 7000 giovani neolaureati che ogni anno escono dai Conservatori. Escono, appunto, per cadere nel vuoto. Possibile nessuno si renda pienamente conto che proprio occasioni internazionali in mondovisione come questa risultano importantissime, fondamentali per lanciare “messaggi” in positivo o in negativo?

Immaginate un’orchestra sinfonica tutta di giovani compreso il direttore d’orchestra e i cantanti, che sul prato verde dell’Olimpico offrono agli spettatori dei cinque continenti un’immagine fresca, attuale e professionalmente alta della musicalità nazionale? Invece niente di tutto questo, ancora una volta. Ed è questo l’altro motivo incoerente che spinge al pessimismo sullo stato dell’arte (è il caso di dirlo). Vale a dire, si preferisce ricorrere ai soliti noti, alle solite cariatidi. Che danno visibilità. Ma che lavorano e guadagnano solo loro, lasciando a tutti gli altri neanche le briciole. Per carità nessuno scandalo e nemmeno tanta meraviglia. Lo stato dell’arte non è altro che la faccia speculare, o, se si vuole, l’altra faccia della medaglia della società globalizzata e capitalistica in cui abbiamo scelto di vivere.

Tornando alla cerimonia inaugurale di Roma il solito nome, la solita cariatide si chiama Andrea Bocelli. Pare che gli eventi nazionali siano esclusiva di questo cantante decaffeinato. L’incompetenza dei promotor o organizzatori di eventi l’ha imposto al grande pubblico come un tenore da urlo, non plus ultra dell’italico bel cantismo. Mentre nella sostanza il Bocelli non è che un urlatore nel vero senso della parola. La messa in voce è nasale nello sforzo di dare un timbro cromatico, la potenza (presunta e dilatata da sapienti microfoni) è tutta spinta da sforzo innaturale della gola e della testa, il fraseggio e l’espressività limitati da respirazione occlusa dallo sforzo di cui sopra e dunque senza sfumature, chiaro scuri e raffinatezze sonore. Più che tenore direi cantore. Ma tanto si sa, più urli e più ti applaudono. E “NESSUN DORMA” può essere buttato lì in uno stadio anche senza orchestra (basta la base preregistrata), con lo sforzo proteso dell’ugola bocelliana a far dimenticare anche l’eccelso Puccini e tutti i tenori veri che prima di arrivare a cantare un’aria superba come questa (magari solo per un saggio accademico) devono sudare sette camicie e scalare un Everest di test, prove e deludenti contratti. Come volevasi dimostrare: più che l’arte, più che la musica, poté il favore.

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