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Nello sport statunitense si sta facendo spazio una teoria: per dimostrare di non essere razzisti basta cambiare nome. Sono diverse le squadre che stanno prendendo questa decisione. Anche se il nome è lo stesso da decenni, a volte più di un secolo.

Nel baseball ci stanno pensando i Cleveland Indians (ne ha parlato Riccardo Crivelli su la Gazzetta dello Sport cartacea dello scorso 5 luglio). La società è nata nel 1901 ed è rinomata come una di quelle che hanno fondato lo sport professionistico Usa. Il nome attuale ce l’hanno dal 1915, ed era associato a un logo che, per non offendere gli indiani d’America, hanno già cambiato nel 2018.

Un altro caso è nel football, dove i Washington Redskins (parola che significa «pellerossa») hanno annunciato che per l’avvio del prossimo campionato, il 10 settembre, cambieranno il nome che hanno dal 1933. Nel tempo questa squadra ha già effettuato dei cambiamenti rispetto allo spirito originale. Nel 1962, per esempio, ingaggiarono addirittura un giocatore di colore… furono l’ultima franchigia professionistica a farlo, ma soltanto perché il Segretario agli Interni (equivalente a un ministro di un governo europeo) li minacciò di sanzioni. Nel 1971 cambiarono il logo, e chiesero l’approvazione del Consiglio della Nazione Indiana, che lo concesse.

Ma cambiare la parola è sufficiente? Se nei comportamenti quotidiani si rimane gli stessi di prima…?

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Autore

Guido Tedoldi

Nato nel 1965 nel milieu operaio della bassa Bergamasca. Ci sono stato fino ai 30 anni d’età, poi ho scelto di scrivere. Nel 2002 sono diventato giornalista iscritto all’Albo dei professionisti. Nel 2006 ho cominciato con i blog, che erano tra gli avamposti del futuro. Ci sono ancora. Venite.

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