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Il sublime di Edmund Burke. Lezione di Elio Franzini

Platone (Fedro) dice che l’autentico poeta è sublime. La parola viene usata per i grandi oratori del periodo ellenistico. Appare  nel titolo di un trattato (Del sublime, I secolo d.C) attribuita a un certo Dioniso Longino, sempre nel campo della retorica, a indicare uno stile con forte pathos, che dà slancio, travolgente, che eccita l’ascoltatore come nel dramma shakesperiano dove Antonio muove la folla davanti al cadavere di Cesare. Non propriamente collegata al bello, denota una grandezza d’animo che trascina.

Poi termine e testo sembrano perdersi – “i barbari sdegnano la retorica e le arringhe” diceva Kavafis – per ricomparire più di mille anni dopo quando si riscoprono i classici e si riprende il greco. Pubblica il trattato di Longino Francesco Robortello a Basilea (1554) e la parola sublime acquista un significato estetico, come categoria del piacere. Boileau la ritraduce in francese e così si diffonde per l’Europa.

Si intende per sublime qualcosa che va oltre la bellezza, affascina e spaventa insieme, come l’immensità della montagna o il naufragio visto dalla riva : “ E’ dolce (suave est) quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare (mari magno) guardare da terra il naufragio (magnum laborem); non perché l’altrui tormento procuri diletto ma perché ti consola vedere (cernere) da quali mali sei scampato (careas)” (Lucrezio, De rerum natura II).

Diventa parola comune con l’empirismo inglese, fondamentale per la cultura occidentale con Edmund Burke (1729-1797). Membro del Parlamento (Whig Party) e sostenitore della ribellione delle colonie americane, è contro la democrazia rappresentativa della Rivoluzione francese (Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia 1790), contro l’anarchia degli Illuministi che non tengono conto della complessità della natura umana. La tradizione per lui non si fonda tanto sulla ragione quanto sul sentimento. Si potrebbe definire anticlassicista nel senso che vede il sentimento più che la forma, il bello di Winkelmann nella forma perfetta. Un’opera è classica perché sa parlare. Eliot diceva di Burke che era stato un traghettatore, di transizione da una tradizione all’altra.

Per Burke c’è del bello anche nel grottesco, come oggi è percepito dalle avanguardie. L’opera mette a distanza, non  definibile perché bella o armonica, ma in quanto passionale, dissonante.

Certi suoi giudizi possono far ridere: il bello è piccolo e tondo, come le donne fatte per preservare la specie. O il  maschio che è squadrato, spigoloso, alto,  maestoso, che deve attrarre sessualmente. Ma Burke approfondisce il rapporto tra natura e passioni. Il sublime è connesso alle passioni che sono da contenere. Chiama delight (delizia) la forte emozione disturbante. Come una rappresentazione teatrale, il pericolo c’è ma a distanza come nei film schifosamente affascinanti di Tarantino dove l’orrore pervade ma non distrugge il soggetto. Si vive l’aspetto negativo della vita tenuto a distanza. E’ la possibilità di accettare il negativo, che è anche la morte.

Con lui si spiega la poesia cimiteriale inglese, che muove da sentimenti misti, e appunto l’arte contemporanea. Il sublime segnala la non sufficienza del bello, si va oltre, più del piacere. Il sublime è l’infinitamente grande, uno spazio allargato a dismisura tanto da non temere il contatto con il nero, l’informe, il brutto, l’orrendo. Rappresenta e si muove nel contrasto, in un  dissidio incontenibile.

Kant riprenderà Burke, in un contesto diverso nella sua filosofia trascendentale. Non c’è solo una differenza tra il bello e il sublime, tra una dimensione controllata e quella che ci fa uscire da noi stessi. Nell’estetica c’è il pensiero, non  solo la forma e con il pensiero l’aspetto morale. Pensare è più importante che conoscere. Il sublime è ancora d’attualità. Per J.F. Lyotard, padre del postmoderno, il sublime manifesta il dissidio che investe l’uomo contemporaneo, nella incapacità del soggetto di liberarsi dalla dimensione di morte all’interno della vita.

Spazio Hub Treviglio, 22 aprile 2024

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