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Don Minzoni è uno di quei preti nati non per far carriera ecclesiastica ma per vivere il Vangelo. Fin da giovane non si accontenta delle liturgie e dei suoi riti, ma sente il bisogno di mettersi dalla parte degli oppressi, in particolare sente come primari il bene della formazione della persona attraverso la dignità della scuola e del lavoro.

Siamo all’inizio del 900, anni in cui la Chiesa ha abbandonato l’invito ai cattolici a non partecipare all’attività politica per protesta contro l’unità d’Italia. L’enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII per la prima volta interviene sulle storture del capitalismo e sulle sirene del socialismo, e Don Minzoni avverte l’impegno cristiano di sporcarsi le mai, vivere cristianamente l’impegno sociale e culturale, mettersi dalla parte dei ragazzi per dotarli degli strumenti per la formazione di un pensiero critico, e dei lavoratori che si battono per condizioni lavorative migliori.

Sente il bisogno di studiare per capire i nuovi fermenti sociali. Fra il 1912 e il 1914 frequenta la Scuola sociale di Bergamo voluta dal Vescovo locale Giacomo Maria Radini Tedeschi, affiancato dal giovane segretario personale don Angelo Roncalli: questa scuola all’epoca fa di Bergamo uno dei luoghi più significativi per il movimento sociale dei cattolici, Don Minzoni l’affronta con grande impegno. Ne esce con lode con una tesi che è un programma, sulla controversia fra il Cristo della fede e il Cristo della storia. Scoppia la Grande guerra e don Minzoni potrebbe starsene in qualche ospedale. Invece, parte volontario a fare il cappellano al fronte, vuole stare con i più vulnerabili, si guadagnerà anche una medaglia d’argento al valor militare.

Alla fine della guerra rientra nella sua Argenta (Ferrara) e mette in pratica quello in cui crede, si occupa dell’educazione dei ragazzi per i quali realizza il doposcuola, la biblioteca, il teatro parrocchiale, il circolo maschile e addirittura quello femminile: organizza anche due sezioni scout, un movimento fondato da poco e malvisto anche dalla Chiesa, in quanto fondato da un anglicano. Si scontra con i fascisti guidati dal feroce ras ferrarese Italo Balbo, tra i protagonisti di assalti e pestaggi nelle Camere del Lavoro e nelle sedi socialiste in Emilia. I fascisti non tollerano altra educazione che non sia quella che parte dai balilla e arriva alla camicia nera. Offrono a Don Minzoni onori e cariche per portarlo dalla loro parte ma lui non si fa comprare, accetta di dover passare il Rubicone.

La sera del 23 agosto 1923 viene aggredito alle spalle, al buio, da due coraggiosi patrioti, sgherri fascisti che lo colpiscono con una mazza ferrata alla testa e gli sfondano il cranio: il mandante si scoprirà essere quell’Italo Balbo, che sarà implicato anche nel delitto Matteotti e in tanti altri atti criminali, degno rappresentante dell’ideologia dell’odio e della violenza del regime. Per quel prete Balbo aveva raccomandato bastonate di stile. Si sa che gli esaltati amano estetizzare la politica che procura la bella morte, come i jihadisti e tanti integralisti invasati, il fanatismo alla fine fa cortocircuito, gli estremi si toccano, il cerchio si chiude. Con Don Minzoni il fascismo inaugura la stagione degli omicidi di coloro che la pensano diversamente. Matteotti cadrà solo qualche mese dopo, e poi tanti altri ancora.

Don Minzoni, martire civile prima che religioso (quest’anno ricorre il centenario della morte), appartiene alla memoria dimenticata, ancora oggi è sconosciuto ai più. Italo Balbo invece diventerà deputato, sottosegretario all’economia nazionale e poi ministro dell’aeronautica, e pur riconosciuto colpevole di orrendi crimini, alla fine della guerra la scamperà grazie all’amnistia di Togliatti il comunista. Oggi siamo in clima di riscrittura della storia, c’è qualcuno che vuole intitolargli vie e piazze. Così va l’immondo.

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