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Di famiglia ebraica benestante si dedicò presto alla filosofia. Allieva e legata sentimentalmente con Heidegger, dopo il 1933 avvenne la rottura. Completò la tesi sull’amore in S. Agostino con Jaspers. Poi le vicende che riguardano la Germania di quegli anni condizionarono le sue scelte di vita e di studio. Rifugiatasi negli Stati Uniti nel 1951 pubblicò l’opera che la impose sulla scena culturale, Le origini del totalitarismo.


Guardando alle efferatezze dei regimi totalitari – lo stalinismo e il nazismo – Arendt si domanda: come è possibile che ciò che sembra inudibile rimanga indicibile? La crudeltà non è un’esperienza recente, la storia ne è disseminata. Ma coi totalitarismi del ‘900 fu possibile ridurre gli uomini a marionette, a cadaveri ambulanti, a prigionieri senza parvenza umana. C’è stato un processo sistematico di nientificazione, dal togliere i diritti a distruggere la personalità e l’individualità. Si è ucciso l’unicità dell’uomo. Non c’è causa che giustifichi Auschwitz, anche se con il colonialismo, l’antisemitismo, l’imperialismo si è creato il laboratorio infernale di distruzione dell’umanità.

Nel 1958 la Arendt pubblicò Vita activa (The human condition). La novità sta nella categoria della nascita. Con il nascere ognuno esibisce la sua unicità. La nascita è emblema di novità, sorpresa, imprevedibilità. La politica per la Arendt è azione che è sempre interagire; la politica non è morte ma spazio aperto, è messa in scena, teatro. Ciascuno è attore e spettatore, si mostra agli altri e assiste alle azioni degli altri. Con l’azione ci inseriamo nel mondo, ci confermiamo e sobbarchiamo alla nuda realtà. La nascita è la nostra esposizione, la politica è la nostra esibizione. La vita non è correre verso la distruzione o morte – essere per la morte secondo Heidegger – ma è confermare la nascita che è novità. L’uomo nasce per cominciare. La vita non è il ciclo naturale – aprile il più crudele dei mesi, quando tutto rinasce, fino all’autunno, preludio di morte (Elliot). Arendt non vede il mondo in dimensione trascendentale. Questo è il nostro teatro; qui ci giochiamo la felicità che è data dalla politica ossia possibilità di realizzare l’uomo. “Ogni generazione dovrebbe avere la propria rivoluzione” (Jefferson) non come momento violento ma come fatto sorgivo in cui si apre uno spazio di azione. Di solito parlando di politica pensiamo a ordine, potere, organizzazione. Arendt vede invece la performance, l’azione, il teatro, l’esibizione. La sua domanda non è “cosa sei tu?” ma “chi sei?” Non si tratta di indicare la qualità, la caratteristica, il genere, la professione, la gerarchia; io mi mostro nell’agire, nella spontaneità di essere unico, capace di iniziativa e in relazione agli altri e reciproca cooperazione.


Nel 1960 i servizi segreti israeliani sequestrarono in Argentina Adolf Eichmann. Venne segretamente estradato e a Gerusalemme processato. Hanna Arendt seguì il processo, inviata speciale del The New Yorker. Dal reportage nacque il libro che la mise al centro di feroci polemiche, La banalità del male (1963). Il titolo è significativo: non si parla di male radicale, ma di male banale. Il male non è qualcosa di grandioso, eccezionale; non bisogna fare dei nazisti degli eroi satanici. Eichmann era un uomo grigio, preoccupato di sé, della famiglia, della carriera. “Ho semplicemente obbedito, ho fatto quello che mi si chiedeva di fare” rispondeva continuamente. Il male avanza perché trova indifferenza, persone preoccupate del quieto vivere, banali, che non oppongono resistenza. Arendt ammoniva: quello che è successo nella civile Germania, al centro dell’Europa, può ripetersi. Valori che sembravano intangibili, “non uccidere”, si erano dissolti.

A Scholem scriveva: “Credo che il male non sia mai radicale, non possiede profondità, non ispira il pensiero. Il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici e nel momento in cui si occupa del male è frustrato per la sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale; il male no, non per questo è meno tremendo”.
La accusarono di denigrare Israele, di antisionismo e di antisemitismo. Lei replicò. Senza collaborazione delle autorità ebraiche non ci sarebbero stati quasi sei milioni di ebrei morti. Tutto era stato organizzato con il tacito consenso di molti. Fu emarginata nella comunità ebraica, ma il suo era il modo onesto di capire la storia e quanto era successo. Quando morì di un attacco cardiaco stava lavorando sul libro che sarebbe uscito con il titolo La vita della mente. Fa l’esempio di Ulisse arrivato in incognito tra i Feaci. Nel mezzo della festa in suo onore arriva un aedo cieco che si mette a declamare le imprese degli eroi a Troia. Ulisse piange. In quel momento capisce il significato di quello che ha passato, scopre in modo inaspettato chi è. La Arendt sottolinea l’importanza del racconto, della narrazione. “La vita senza racconto è insensata” (Karen Blixen). Raccontando acquisiamo il senso del vivere. Le donne in particolare, che siano filosofe come Hanna Arendt, Simon Weil oppure donne normali, nei rapporti quotidiani l’hanno ben praticato.

A cura di Mauro Malighetti
(tratto da Rai Scuola, Hanna Arendt, A. Cavarero, Raiscuola Zettel)


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