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Raffaello è figlio di Giovanni Santi, letterato e uomo della corte del signore di Urbino, Federico da Montefeltro, uno dei centri rinascimentali più vitali. Qui convogliarono artisti e letterati come Alberti, Piero della Francesca, Paulo Uccello, Pietro Bembo. La mano di Raffaello, non ancora ventenne, e il suo genio sono già nel S. Sebastiano custodito alla Carrara. Il martire, protettore degli appestati in tempi di ricorrenti pandemie, non è più nudo e infilzato da frecce ma vestito, dal volto dolce, i capelli che scendono sulle spalle e dietro un cielo di aurora. Tiene in mano lo strumento del martirio quasi strale d’amore.

Raffaello va a Perugia e impara da due maestri, il Perugino e il Pinturicchio. Perugia era nell’orbita papale e allora era Papa Alessandro VI il Borgia, mecenate e amante delle arti e altro. Dal Perugino Raffaello prende l’elemento paesaggistico, il senso del verde, il cielo azzurro, tutto composto in armonia. Come esempio del maestro è un’opera del Perugino anch’essa custodita alla Carrara: la Natività. I personaggi sono disposti in semicerchio, Maria e Giuseppe in primo piano, li raccoglie l’elemento architettonico della palizzata, sullo sfondo, in linea con il neonato, il paesaggio ondulato e lo specchio d’acqua contornato dal verde.

C’è la cura dei particolari come nell’Adorazione dei Magi (sempre del Perugino) della Chiesa dei Padri Serviti – ora alla Galleria Nazionale di Perugia – in cui i committenti Baglioni – famiglia dominante ma litigiosa e perciò presto in decadenza – sono rappresentati nei tre saggi orientali. Di questo periodo è l’opera di Raffaello custodita alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, il Cristo benedicente (1504), la testa leggermente reclinata, il volto composto e dignitoso, un uso dello sfumato di sapore leonardesco.

A Siena Raffaello entra nella bottega del Pinturicchiopiccolo pittor – che nella pittura rivela le sue doti di miniaturista – Vasari lo definisce “ornamentale” – come nel suo capolavoro la Cappella Baglioni (1501) di Spello. Tutta decorata da scene della Storia di Maria e dell’infanzia di Gesù tra cui l’Annunciazione. La Madonna con accanto il leggio tiene la mano sul libro aperto e ha appena ricevuto il messaggio dell’Angelo. La scena si apre attraverso la geometria del pavimento e dell’arcata verso un paesaggio ricco di dettagli e l’occhio dello spettatore insegue la strada che sale serpeggiando. Sulla mensola a destra un dipinto appeso ritrae il pittore autenticato dalla firma.

Raffaello a Firenze, dove si è trasferito – “per meglio apprendere” – entra nella bottega del Verrocchio e avrà modo di confrontarsi con due giganti, Michelangelo e Leonardo. Sono gli anni di Lorenzo il Magnifico, un periodo di relativa pace, interrotta poi dalla discesa dei francesi di Carlo VIII e le Guerre d’Italia. Raffaello dipinge l’Angelo, frammento della pala Baronci oggi conservato a Brescia. Ha imparato a usare la luce e dà una freschezza insolita al volto che saprà modulare nei ritratti. Svolta fondamentale è Lo sposalizio (1504) superando il suo modello, con una composizione di armonia e serenità. Fissa il momento decisivo: Giuseppe infila l’anello nuziale a Maria. Tutta l’architettura converge: i quadri del pavimento, il tempio tondo, il porticato, la porticina aperta sull’orizzonte.

Altro mirabile frutto degli apprendimenti di Firenze è La Madonna del Prato, lei mamma affettuosa che sorveglia, il cuginetto grande che offre la croce – segno presago – al piccolo incerto nei suoi primi passi. Decisivi furono nella sua vita due personaggi, Elisabetta Gonzaga e Pietro Bembo. La prima, moglie di Guidobaldo da Montefeltro, donna colta e amante delle lettere, volitiva e organizzatrice, aveva riunito intellettuali e artisti alla Corte di Urbino, dove Raffaello era cresciuto. L’aveva poi protetto e incoraggiato negli anni di formazione. Raffaello ritrae Elisabetta Gonzaga in uno scollo dorato, la collanina e uno scorpione in fronte come segnale di distacco e rispetto dovuto.

Il Bembo, qui nel ritratto di Tiziano, fece l’epitaffio alla morte di Raffaello: “La natura, lui vivo, si era trovata a contendere con lui, ora che è morto teme di morire”.  Era stato il cultore della classicità per la lingua (Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua, 1525). In sintonia con l’altro umanista, Baldassarre Castiglione cui si deve il  Cortegiano, trattato aureo sul gentiluomo di corte. Lui era promotore del buon parlare, per una classicità della lingua.

La Scuola di Atene di Raffaello fa parte delle Stanze vaticane che Giulio II Della Rovere volle nel momento di insediarsi sul trono pontificio. Sono rappresentati filosofi e saggi dell’antichità, al centro Platone che con la mano indica il cielo, e Aristotele, la destra protesa verso terra. Tutti uomini diversamente impegnati alla ricerca del vero che il Cristianesimo avrebbe pienamente rivelato. C’è una sovrapposizione tra antico e contemporaneo. Oltre a Bastiano da Sangallo, maestro di prospettive, nelle vesti di Aristotele, c’è Eraclito davanti che ha il volto di Michelangelo, per desiderio di Papa Giulio. Euclide, nelle fattezze di Bramante, traccia un cerchio in terra, attorniato dai discepoli. Pitagora con un libro in mano su cui scrive mentre c’è chi guarda e prende nota. Tolomeo con il globo terrestre in mano mentre Zoroastro ha quello del cielo. Socrate conversa con Alcibiade e altri, in un dialogo che educa, cioè trae fuori la verità che è in noi, come era scritto sul tempio di Delfi (gnothi sautòn).

La Scuola di Atene di Raffaello piacque al Cardinal Federico Borromeo per il quale la pittura doveva piacere (delectàre), insegnare (docère) e soprattutto spingere alla conversione (movère). Piacque a Pelizza da Volpedo che lo studiò prima di dipingere il suo Quarto stato (1902). Raffaello morì a 36 anni, “d’amore” secondo Vasari, e la sua morte lasciò tutti “in grandissima mestitia”.


A cura di Mauro Malighetti (sintesi di una lezione dal professor Giovanni Dal Covolo, “Raffaello Sanzio, la Scuola di Atene ” del 4 dicembre 2020 nell’ambito della programmazione di Noesis).

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