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Luigi Einaudi nasce a Carrù, cresce a Dogliani, vive e muore a Roma il 30 ottobre del 1961, 60 anni fa. Insomma una vita con l’eccellenza nel destino, la patria del bollito, del dolcetto e la caput mundi finale, l’eccellenza italica quando il made in italy non era ancora nato, nel sangue l’humus delle Langhe e del Risorgimento, la ricerca di una dottrina e di uno stato liberale che dopo Cavour si era svigorito in un “viver quieto e tranquillo“. E’ stato il nostro secondo Presidente della Repubblica, ma soprattutto uno dei pochi liberali italiani presenti nel gotha del pensiero politico europeo: dal 700 in poi, con la rivoluzione industriale e l’avvento del capitalismo, politica ed economia si sono polarizzate su due pensieri socioeconomici, quello liberale, che teorizza uno Stato che favorisce l’iniziativa privata al servizio della crescita collettiva, e quello socialista, che invece teorizza una presenza regolatrice dello stato nella vita del cittadino.

Luigi Einaudi si pose lontano dagli eccessi dei due pensieri, da una parte il liberismo senza regole che porta ad un monopolismo capitalistico in cui non vince il più bravo e il più attento al sociale, ma il più forte senza scrupoli (quello che è accaduto negli ultimi decenni e sta ancora accadendo), dall’altra il comunismo collettivistico ed il fascismo corporativistico dello stato-balia, “buoni solo per le maniche col lustrino” ( i burocrati, ndr), e che portano ad “omologare le azioni dell’uomo e a distruggere la gioia di vivere, che è gioia di creare”. Luigi Einaudi sapeva bene che politica, socialità, economia sono strettamente interdipendenti, e quindi vanno valorizzate attraverso un comportamento etico e responsabile: convinto antisovranista, vide nell’europeismo la risposta alla crescente interdipendenza imposta dallo sviluppo economico generato dalla rivoluzione industriale.

Aveva previsto, come Marx quasi 100 anni prima, l’espansione globale del capitale, per cui se da una parte bisogna consentire un’economia di concorrenza per liberare le menti migliori, dall’altra il mercato non può essere lasciato libero, ma va regolamentato: teorizzò un’ “economia sociale di mercato”, in cui l’iniziativa privata dev’essere messa al servizio della “socializzazione del progresso e del guadagno”, pensiero che portò, da costituente, fin dentro la Costituzione, ai comma 2 e 3 del futuro art. 41, che definiscono i confini dell’iniziativa privata all’interno dello stato, iniziativa che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (Sta scritto in Costituzione, perché non la si rispetta? ndr).

In campo sociale fu per la “bellezza della lotta”, per la difesa e promozione del più ampio pluralismo, dello sviluppo delle capacità individuali, dei diritti e delle libertà civili: per crescere non serve un’unica volontà, ma un confronto libero ed aperto purchè tollerante e rispettoso degli altri, e lo stato liberale deve fare da garante di queste libertà, ha il dovere di garantire a tutti i cittadini la libera espressione di sè, tutti devono poter far sentire la loro voce e la propria personalità: tuttavia “ogni qualvolta il libero agire sopraffà l’altrui e va contro l’interesse collettivo, lo stato liberale non indugia a porre limiti alla libertà assoluta degli individui”. Poiché anche in una democrazia liberale a governare sarà sempre una minoranza eletta dalla maggioranza, e non è detto che sia la classe dei migliori, dev’essere a sua volta controllata e messa nelle condizioni di evitare abusi di potere, attraverso l’introduzione di corpi intermedi: come nell’economia, anche in politica e nel campo sociale “se si lascia libero gioco al laissez-faire, passano soprattutto gli accordi e le sopraffazioni dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui”.

In una delle sue Prediche Inutili nel 1942, Luigi Einaudi scrisse che “Ove non esistano freni allo strapotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi intesi a procacciare potenza, onori e ricchezze per sé, con danno nel tempo della stessa maggioranza e della minoranza”. Convinto assertore della necessità dell’istruzione, per lui la scuola deve creare uno spazio sempre più ampio “alla battaglia delle idee”, specialmente nelle Università, che dovrebbero “inculcare, tra i politici massimamente, la lezione di umiltà”. Tutto questo mi sembra molto attuale; negli ultimi decenni in campo economico stiamo assistendo ad un capitalismo selvaggio, in cui il profitto è l’unico generatore di valore, non importa se raggiunto tramite lo sfruttamento di sempre più strati di popolazione.

In campo politico abbiamo visto avanzare demagoghi, populisti, sovranisti, abbiamo sostituito il dibattito politico con slogan come vaffanculo e me frego, i politici sono impegnati a fare presenzialismo nei social e a dimostrare il loro peggio per assomigliarci e raccattare voti, applicano continuamente il principio di non contraddizione, per cui oggi dicono una cosa e domani l’esatto contrario, tanto la massa applaude sempre. La politica sembra diventata l’arte dei mediocri, non più l’arte e la responsabilità di organizzare il proprio mondo: abbiamo politici che per affermarsi dimostrano un’aggressività spavalda fondata sul bluff del nulla. Se piacciono così, che sia: però giù le mani dal pensiero liberale, certi “politici” prima di nominarlo che lo studiassero e sapessero cos’è, e la smettessero di sbandierarlo ad cazzum giusto per attrarre qualche sprovveduto. Anche la libertà ha dei limiti, ed una sua dignità.

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