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La drammatica vicenda dell’ambasciatore Luca Attanasio è un evento che colpisce duramente perché suscita domande radicate e profonde sul senso della vita e, in particolare, su quell’aspirazione ad una giustizia che nessuna risposta umana può fornire in modo esaustivo. Accade così che una “luce” possa arrivare tramite un’omelia (il link al testo), condivisa da una cara amica, nella quale viene introdotta una prospettiva che, pur non togliendo nulla alla drammaticità dell’accaduto, suggerisce una traiettoria “misteriosa” che merita di essere presa in considerazione. Per questo possono essere utile le risposte a una mia intervista al Generale Antonio Bettelli, Deputy chief of staff support – Nato, impegnato da diversi anni in missioni all’estero.

Leggere l’omelia apre alla speranza e rinnova in lei il senso di responsabilità verso la sua missione?
Se dovessi dare un titolo all’omelia dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini alle esequie funebri dell’Ambasciatore Attanasio, di Luca, sceglierei quello della “Parabola del Paradosso Apparente”. Parabola perché le parole del vescovo sono un veicolo di verità per tutti, paradosso perché la narrazione allegorica dell’omelia viola le aspettative associate alle ragioni del vivere, tali da far ritenere inaccettabile l’assassinio di una persona giovane e amata, e apparente perché solo la contradditoria evidenza del paradosso può far emergere, nel confronto tra la rabbia suscitata dalla scomparsa di un benefattore e la mitezza della misericordia divina, il valore di un percorso breve che racchiude in sé il seme amoroso del miracolo.

Sì, perché la morte causata dalla mano violenta dell’uomo di un giovane bravo, talentuoso, stimato, generoso e prodigo verso i bisogni dei più deboli e dei meno abbienti è una provocazione così forte da assumere essa stessa la connotazione del messaggio universale; e il miracolo altro non è che un messaggio universale.

Allora Luca, secondo la parabola, giunge al cospetto del Giudizio e si volta ripetutamente. Sente che il suo cammino è incompiuto e che ancora molto avrebbe potuto fare per alleviare le pene e le sofferenze umane di cui egli è stato testimone. Luca non comprende quella violenza che lo lascia apparentemente inerme nella lotta per la giustizia, che dà voce ai prepotenti sopraffattori del bene e che ancor più depriva i diseredati terreni della speranza di un riscatto. Il riscatto vero tuttavia non è di questo spazio, ma è solo nell’amore generato dal chicco prematuramente caduto. Come frutto autentico, quell’amore rappresenta nella sua accezione estrema la vera panacea.

Quale contraccolpo ha generato in lei l’evento accaduto alla luce della sua esperienza di missioni all’estero?
Il contraccolpo provocato in me dall’accadimento che ha privato l’umanità del giovane (e bello di una bellezza integra) Ambasciatore Attanasio. Mi è stato chiesto di esprimere il mio stato d’animo alla luce delle esperienze vissute più volte in situazioni marginali per dolore e per povertà, come accade ancora oggi in Afghanistan, in Iraq e in Libano che sono terre connotate, per troppo tempo ormai, da ininterrotta sofferenza.

La prima riflessione che mi sovviene è quella di inadeguatezza del confronto tra le mie esperienze ancora irrisolte e la parabola di Luca. Una sorta di ritrosia nel riferirmi al mio vissuto incompiuto rispetto alla maestosa testimonianza del racconto del giovane diplomatico.

La seconda va, con senso di onore che il sacrificio porta sempre con sé, alla memoria dei molti colleghi scomparsi e caduti nell’adempimento del loro dovere, in missione, una definizione che racchiude il valore più alto dell’opera umana.

La terza, infine, va compassionevolmente ai diseredati sofferenti, più sofferenti di me, poiché lo stato del vivere possiede una sua misura sociale, politica ed economica secondo cui dimensionare la qualità del vivere e confrontarci gli uni con gli altri. Il luogo in cui sono nato, la famiglia che ho avuto, le possibilità che mi sono state concesse, le esperienze che ho vissuto mi collocano tra i più fortunati.

Nel paragonarmi, tuttavia spesso, con i destinatari della mia piccola missione, mi sono accorto che tanti di loro si consideravano fortunati pur vivendo una condizione meno abbiente della mia secondo quei parametri di valutazione del benessere. Ho compreso allora che se è vero, da un lato, che le condizioni del vivere contano, in fondo per queste combattiamo, dall’altro la felicità trascende da quelle circostanze. Ho visto bambini prostrati dalla povertà gioire per un dono inaspettato, ho incontrato madri e padri di famiglia privarsi persino di ciò che non avevano pur di dare una possibilità ai loro figli, ho conosciuto amministratori locali e leader farsi portavoce delle sofferenze della loro comunità pur di ricevere un gesto di supporto per la propria gente.

Solo il costrutto regolato del vivere, cadenzato dalla responsabilità di ognuno, può dare alla società cui ci riferiamo un ordine migliore. Solo il convincimento che gli sforzi prodotti con lo spirito della missione, cioè del servire gli altri, non sono mai vani, può trasmetterci l’energia per guardare avanti e in alto senza voltarci.

Se è vero che quel chicco caduto a terra produce speranza, attesa per il meglio e amore (non ho motivo di dubitare pur nella ricorrente incomprensione dell’accaduto), allora a noi, che ancora incompiutamente ci prodighiamo per la nostra opera, è conferito adesso, dall’esempio di Luca, l’altissimo dovere della nostra missione.


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Autore

Alessandro Grazioli

Marito e papà di 4 bambini, laureato in Giurisprudenza presso l’Università Statale di Milano, Business Unit Eticapro, Consigliere Comunale, scrittore di libri per l'infanzia, divulgatore e influencer sociale su Socialbg

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