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Girovagando per Cologno al Serio ci si accorge della struttura medievale, il fossato, le porte, la Rocca, le viuzze ad andamento circolare. Le porte sono quattro in direzione delle città di Bergamo, Brescia, Piacenza e Milano.

Fu una fortificazione, un rifugio, un presidio soprattutto durante le lotte tra guelfi e ghibellini. Si entra dalla porta di Bergamo – quella della Rocca – attraverso due androni, uno serviva ad intrappolare eventuali invasori, non certo un esercito come quello del Barbarossa o dei Visconti di Milano. I muri rimasti sono di ciottoli di fiume o in laterizio, mattoncini rossi che riguadagnano il gusto degli architetti di oggi.

Sono arrivato incrociando la Francesca, la via che i Franchi potenziarono una volta vinti i Longobardi. L’occasione è una festa medievale che come in altre località della Bassa si svolge a fine estate per giusto recupero del passato. Arrivano le famiglie, e i bambini si trovano a proprio agio già introdotti da filmati, cartoni, videogiochi e da storie ascoltate o lette sui libri che cercano e chiedono, a differenza degli adulti. Li accantoneranno purtroppo una volta alle prese coi possenti libri scolastici delle superiori.

Figuranti in veste di scudieri, dame, menestrelli, garzoni, popolane, attori che uniscono l’utile al dilettevole. Vengono dal Bresciano, come mi hanno detto. Hanno montato tende e insegne, allestito spazi per le esibizioni, dalla falconeria alla musica, dalla catapulta al tiro con l’arco, dalla cucina agli antichi mestieri. C’è pure il banco della zecca e le strumentazioni relative perché nel tempo dei mercanti la moneta era il motore, la gioia e la dannazione di quegli uomini sempre in movimento. Ogni signore o città aveva la propria, Bergamo con la sua zecca, alle prese con il “grosso” moneta che si spendeva anche a Milano. Per lontano era meglio il fiorino, moneta forte, garantita. Firenze aveva le sue banche e i banchi dei Medici erano sparsi per tutta Europa. Anche a Cologno si sono rinvenute monete del tempo di Vespasiano.

Il nome Cologno deriva da colonus che ben indica la vocazione agricola del luogo. Il nome compare per la prima volta in un documento dove si accenna a un certo “Stephanus de Colonias”. Ne fa fede ancora oggi la numerosa comunità indiana, che fornisce operai alle aziende agricole della zona.

La Chiesa parrocchiale è dedicata all’Assunta, rifatta sulla precedente del 1302, l’epoca di Dante. L’attuale   fu iniziata nel 1720 e finita nel 1777 su progetto di Giovan Battista Caniana che era originario di Romano di Lombardia. Dalla stessa bottega uscì il bel coro ligneo. L’organo è un magnifico Bossi, gli affreschi che narrano di Maria sono del pittore Vincenzo Orelli di Locarno. La facciata si mostra pulita e nuova, recentemente restaurata con le numerose statue di Santi e Angeli, oltre che quella della Madonna, opere degli scultori Sanz e Pirovano. E’ rimasto il campanile vecchio insieme a quello nuovo. Quando sono entrato era in corso l’ora di adorazione, l’ostia consacrata posta in un prezioso ostensorio.

In un angolo della piazza c’è una statua, una figura di prete, come se ne vedevano prima del Concilio. Una faccia larga, un sorriso bonario, gli occhi abbassati, come a parlare ad un bimbo. Chiedo a uno che passa. Si mette la mano sulla fronte, si scusa: “Sono nato e cresciuto qua ma poi sono andato ad abitare a Brescia. Ho sempre sentito parlare di don Cirillo Pizio. Che cosa abbia fatto per meritarsi la statua non glielo so dire. Era comunque una brava persona.”

Con la festa si approfitta per visitare il Museo della casa del contadino aperto non solo di festa, sopra il bar affollato di anziani. Giocano a scopa che dà adito a commenti e recriminazioni sia dei partecipanti che degli osservanti. C’è però il volontario disponibile a far da guida. Il valore aggiunto nella visita, se composta da pochi, sta nei partecipanti, in questo caso visitatori anziani dal mantovano. Ci si dilunga in considerazioni sul tipo di bilance, sui canestri ricavati da stoppie di fiume, sui giochi d’infanzia e la palla da calciare ricavata dalla pelle di maiale, sui banchi di scuola e gli strattagemmi delle maestre per non far succhiare la cannuccia di legno dove si infilava il pennino, sulle macchine per sgranare il grano, sulle serate passate a togliere la foglia della pannocchia (desfoià ol melgòt). Chissà cosa potrebbe aggiungere un immigrato indiano?

Al bar mi hanno detto che per veder la campagna basta andare verso Campino. “C’è anche una pista ciclabile, la vecchia cascina e la chiesetta.

 Dal nome sopra l’ingresso la chiesa sembra dedicata a S. Anna. Durante la terribile peste manzoniana era un lazzaretto.   Un parroco che si sentiva colpito lasciò scritto: “sono il quinto parroco che si è succeduto in due mesi, sto male e con questo chiudo il registro dei morti.”


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