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Scacco matto! Gli orologi si fermano. Il vincitore s’impettisce di vanagloria davanti all’avversario battuto: un gigante con ai piedi un moscerino. Qualcuno afferma che per giocare a scacchi occorre uno spirito omicida. In parte è vero. Gli inesperti dilettanti dei circoli, che gli inglesi definiscono con ironia woodpushers (gli spingilegno), mentre si destreggiano impacciati e timorosi tra torri e alfieri, provano un piacere crudele nel consegnare il re avversario al suo destino di sconfitta.

Anche i grandi campioni faticano nel mitigare un ghigno malevolo quando i loro pezzi avanzano incontrastati verso il comando nemico barricato in una disperata linea difensiva. «Mi piace vederli dibattersi», confessò l’insuperato Bobby Fischer a proposito dei suoi avversari prima di strappare al russo Spassky, nel 1972, il titolo di campione mondiale.

In fondo la leggenda vuole che l’invenzione degli scacchi sia legata a un efferato omicidio. Si narra infatti di un ricchissimo principe indiano tremendamente annoiato di un’esistenza priva di novità. Per rimediare al tedio quotidiano annunciò alla corte che avrebbe donato qualunque cosa a colui che fosse riuscito a procurargli insperate ore di divertimento.
 A palazzo si presentarono personaggi d’ogni genere: saggi, fachiri, maghi e saltimbanchi, ma nessuno riuscì nell’impresa di rallegrare nuovamente il principe.

Quando ogni speranza sembrava persa si fece avanti un mercante col pallino delle invenzioni. Aprì un cofanetto, estrasse una tavola con disegnate  64 caselle bianche e nere, alternate fra di loro, dove appoggiò 32 figure di legno. La curiosità  dei cortigiani cresceva. Poi il mercante-inventore disse al principe: «Vi porgo i miei omaggi, o potentissimo Signore, nonché questo gioco di mia modesta invenzione: “il Gioco degli scacchi”».

Il principe osservò perplesso. Volle  lumi sulle regole. Il mercante spiegò con pazienza i movimenti di ogni figura. Giocarono. Anche se perse quattro volte consecutive il principe ritrovò il sorriso e memore della sua promessa, domandò all’inventore del singolare passatempo quale ricompensa desiderasse. Il mercante, con aria dimessa, chiese un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due chicchi per la seconda, quattro chicchi per la terza e via via raddoppiando fino all’ultima.

Stupito da tanta modestia, il principe diede ordine affinché la richiesta del mercante fosse immediatamente esaudita. I matematici si apprestarono nei loro calcoli, ma un’angosciosa meraviglia si stampò sui loro volti man mano che continuavano a moltiplicare e poi a sommare. Giunsero al risultato che la  quantità di grano richiesta dal mercante era ottenibile soltanto coltivando una superficie più grande della Terra! Non potendo materialmente esaudire l’esoso mercante il principe diede ordine di giustiziarlo.

Gli scacchi sono dunque un gioco di battaglie, una sfida di intelligenza e autocontrollo emotivo tra due avversari che manovrano un esercito in miniatura. In molti casi la scacchiera si trasforma in un labirinto troppo complicato per uscirne fuori. Gli scacchi possono esercitare un fascino talmente sottile da restarne irretiti: una sorta di innamoramento morboso che ipnotizza la volontà in un quadrato di pezzi bianchi e neri che sottrae implacabile al mondo reale. Ricordiamo che tra le preoccupazione maggiori del riformatore religioso Jan Hus, poco prima che fosse bruciato vivo, ci fu quella di aver dedicato agli scacchi troppo tempo.

Gli scacchi sono uno dei giochi più antichi della civiltà occidentale (VII – VIII dopo Cristo). Gli storici considerano l’India il suo luogo di origine. In Europa fu introdotto nel Duecento. Il primo torneo internazionale fu disputato a Londra nel 1851. La letteratura scacchistica (raccolte di partite e manuali teorici) è aumentata in proporzioni tali da superare, a quanto si dice, quella di tutti gli altri giochi messi insieme.

Curioso il manoscritto di uno sconosciuto ecclesiastico del Seicento che ci ha lasciato una vivida descrizione del fascino malefico esercitato da questo gioco: «Gli scacchi mi seguono nel mio studio, sul pulpito; mentre pregavo o predicavo, giocavo a scacchi col pensiero. Mi hanno fatto perdere molto tempo. Quante ore preziose, che non torneranno più, ho dedicato a questo gioco. Ho ferito la mia coscienza e perduto la pace… Mi ha fatto trascurare molte volte i miei doveri verso Dio e verso gli uomini».

In netto contrasto con la seduzione che il gioco esercita sui suoi simpatizzanti è l’atteggiamento di chi non se ne interessa affatto. Viene definito un passatempo freddo, monotono, noioso, eccessivamente intellettuale e sono del tutto incapaci di condividere la tempesta di emozioni che può suscitare.

Anche se non esistono statistiche attendibile sembra che a scacchi giochino soprattutto gli uomini. Perfino in Russia, dove ha conquistato il privilegio di hobby nazionale, le donne si mostrano meno interessate degli uomini. In Gran Bretagna è il solo gioco legalmente ammesso all’interno del Parlamento. Gli spiritosi suggeriscono che gli scacchi sono troppo difficili per essere un gioco e troppo facili per essere una scienza.

Essenziale nel gioco è la figura del Re. E’ il pezzo che dà al gioco il suo nome, perché “scacco” deriva dal persiano shah , che significa appunto Re mantenendo inalterato il senso di paese in paese. Tutti gli altri pezzi sono designati con nomi diversi secondo le varie lingue: in russo, per esempio, la Regina è chiamata Fyerz, che non ha nulla a che vedere con la donna; l’Alfiere è chiamato, in francese, Fou ossia buffone, in inglese Bishop ossia vescovo, in tedesco Läufer ovvero corridore.

Scriveva Ibn Al-Mutazz, un poeta arabo: «O tu, che con cinismo attacchi il gioco a noi caro degli scacchi, sappi che la loro arte è scienza, il loro gioco sollievo dal dolore, nel guerriero infondono pazienza, dell’amante curano le pene di cuore, se minacce e pericoli sono alle porte, in essi ritroviamo comunque e sempre i compagni solitari della nostra sorte».


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