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Negli ultimi due anni, su Socialbg, ci siamo occupati in diverse occasioni del ruolo debordante di Francesco Micheli come direttore artistico del festival Donizetti Opera di Bergamo. E , conseguentemente, anche del ruolo della Fondazione Donizetti da noi qualificato alla categoria della “insostenibile leggerezza“.

Ora, dopo quasi otto anni di attività, nel corso dei quali a far la parte del leone è stato il regista brembano, la Fondazione batte un colpo. Timido, ma pur sempre un colpo. E fa ovviamente notizia perché fino ad oggi tutte le scelte, ancorché  dispendiose anche a sproposito, erano sempre passate in cavalleria. Boutade comprese. Come quelle relative al Donizetti rivoluzionario ( … tutt’altro invece, se vogliamo essere seri e collocare un genio come Donizetti nel giusto contesto del suo tempo e della sua arte) o del Sentierone da  trasformare in Broadway (quando mai? Idea velleitaria quanto provincialmente minorata), a ulteriore conferma dell’inadeguatezza di un regista non musicista alla guida di un ente lirico: tant’è che per la prima volta nella storia del teatro bergamasco si è stati costretti a nominare un direttore musicale (Riccardo Frizza) a fianco del direttore artistico. Due ruoli per uno. Con ulteriore dispendio di risorse pubbliche, quindi dei cittadini bergamaschi. E non se ne sentiva proprio il bisogno. Bergamaschi riflettettiamo sulle scelte (senza contraddittorio) dei nostri amministratori.

Ma eccoci all’attualità.  E c’era da aspettarselo che un artista ambizioso anziché no come Micheli guardasse con favore al mare magnum dei finanziamenti previsti per il 2023 quando Bergamo, insieme a Brescia, sarà capitale della cultura italiana. Guardasse come?

  • … con una genialata da par suo su Donizetti?  No.
  • … sui suoi rapporti nazionali ed europei con il melodramma? No.
  • … sul ruolo di Bergamo nello sviluppo italiano e internazionale del teatro d’opera con i suoi compositori, teatri, cantanti, festival storici come il Teatro delle novità ? No.

Ma, udite udite, su Raffaella Carrà. Che sarà certo stata un grande personaggio televisivo e tutto quello che volete. Ma alla fin fine nient’altro che una showgirl. Una talentuosa showgirl. Niente più. 

Ora, viene da chiedersi. Perché un direttore artistico di uno dei cinque teatri lirici italiani che possono vantare il merito di aver dato i natali ai cinque maggiori compositori di melodramma del mondo (insieme, appunto, a Parma per Giuseppe Verdi, Pesaro per Gioacchino Rossini, Lucca per Giacomo Puccini e Catania per Giovanni Bellini) pensi di approfittare di un’occasione unica e pressoché irripetibile come la capitale della cultura e (ri)lanciare Bergamo Musicale in nome della Carrà?

A prima vista potrebbe apparire incomprensibile ancorché insostenibile. Per lo più a meno di un anno (!) dalla sua scomparsa. Ma allora dove sta la furbata? Sì perché di furbata si tratta. Altrimenti non si trovano giustificazioni adeguate. Furbata, nel voler bruciare eventuali altri pretendenti (Comune di nascita, Rai, enti e festival) e presentarsi primo al traguardo celebrativo nazionalpopolare-videocratico-mediaticotelevisivo (ancora una volta). Con la conseguente garanzia di apparire sempre in prima pagina, pubblicità assicurata cogli interessi.

In apertura ho definito timido il colpo battuto dalla Fondazione in merito alla proposta (fortunatamente per ora è solo una proposta) del direttore artistico. Per due ragioni: la prima in quanto al posto di un categorico no il Consiglio ha rimandato la decisione a una prossima seduta (sul tema c’è anche una interpellanza di Fratelli d’Italia). La seconda dovuta solo a ragioni economiche. E dico solo perché altrimenti, probabilmente, sarebbe passata. E ciò costituisce un’aggravante. E una conferma all’insostenibile leggerezza della Fondazione. Ennesima conferma di tutti i precedenti nulla osta.

In una città culturale come Bergamo dove persino il suo massimo teatro fa fatica a imporsi a livello mondiale nel valorizzare l’unico valore musicale aggiunto che possiede (Donizetti, appunto) e persino nel trovare ogni anno i fondi adeguati per produrre 5 o 6 serate liriche, la proposta di celebrare la Carrà a Bergamo pare persino indecente. E qui non c’entrano melomanie o difese ad oltranza della tradizione donizettiana.

Qui si tratta di consapevolezza del ruolo civile dell’arte e formativo della cultura. Viene in mente Socrate. E un richiamo a lui, ogni tanto, non farebbe male da parte di operatori pubblici e politici. Il sapiente filosofo greco affermava di sapere di non sapere, che attraverso un procedimento maieutico portava a scoprire il sapere. Questo dovrebbe fare un ente culturale. Specie se premiato capitale della cultura. In questo consiste il vero rispetto del pubblico e dello spettatore: non trattarlo da servo proponendogli ciò che piace subito e subito è comprensibile. O da vaso vuoto da riempire con le dolci melasse dell’edonismo on the road. Quasi sempre invece è il difficile che pretende e libera dignità, responsabilizza lo spettatore nella fatica del coinvolgimento e dello sforzo del pensiero. Questo se non proprio Micheli almeno la Fondazione, dovrebbe, dico dovrebbe,  saperlo. E praticarlo.

Anche se ciò è sempre più faticoso in tempi di slow e di food: è  più facile difendere i prosciutti e gli chef oggi imperanti e sempre più di moda, mentre l’arte e la cultura impegnativa, costituendo un fatto civile, sono fra le prime cose ad essere trascurate. Certo, più facile attirare le masse in nome di una qualunque ma televisiva Carrà, piuttosto che costruire un percorso musicale educativo.

Il 2023 è ancora in cantiere. Ma questo è il pericolo in cui potrebbe cadere anche una città chiamata a diventare per un anno intero polo culturale di una nazione. Con il consueto spreco a go go di finanziamenti e risorse di tutti. Offrendo l’illusione di voler cambiare tutto, senza smuovere nulla.

Aveva ragione Jannacci: Qui ci vuole orecchio.

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