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Sono da poco usciti i bandi relativi a due appuntamenti scacchistici di grande appeal: Capo d’Orso ACP di Porto Mannu (OT) e Bergamo International Chess Open 2019. In entrambi c’è la firma organizzativa di Yuri Garrett.



Yuri Garrett da questa tua esperienza di “regista” cosa rende “bello” un torneo? Quali sono gli elementi che non devono mancare?
Per prima cosa, vorrei sottolineare che, dal 2014 (anno in cui realizzammo assieme l’ACP Golden Classic), la regia è condivisa con Gianvittorio Perico (bergamasco, ndr.), al quale mi lega una lunga e profonda amicizia e, soprattutto, una rara comunanza di metodo e obiettivi. In Gianvittorio ho trovato la mia anima gemella organizzativa e spesso mi chiedo come fosse il mondo prima che ci incontrassimo. Per rispondere alla domanda, direi che l’elemento che è al cuore di ogni mia manifestazione è il rispetto per il giocatore. Concepisco, sin da quando ero poco più che bambino, il torneo come un contratto tra un organizzatore (il fornitore di servizi) e più giocatori (i fruitori dei servizi) e sono rigorosissimo nell’adempiere alle mie obbligazioni, che interpreto nel senso più estensivo possibile – anche se in cambio richiedo l’osservanza rigorosa del regolamento e delle procedure organizzative. E’ proprio questo reciproco rispetto che consente la fluidità che credo sia caratteristica delle mie manifestazioni. A tutto ciò aggiungo un tocco personale di familiarità, che amo si instauri in ogni cosa che faccio. Giocare un torneo organizzato da Yuri Garrett significa, in un modo o nell’altro, entrare nella sua famiglia. Forse è per questo che ci sono giocatori che tornano a più riprese, alcuni dei quali mi seguono da oltre vent’anni…

Cosa intendi con ‘rispetto per il giocatore’?
Sede di gioco spaziosa, materiale di gioco di alta qualità, arbitraggio di eccellenza (e in numero superiore al minimo federale, a mio avviso inadeguato per un torneo di alto livello), rispetto maniacale dei tempi del bando, procedure organizzative chiare e semplici, attenzione ai dettagli anche visivi, trasparenza e rispetto delle regole, prontezza nel reagire di fronte agli imprevisti. Ma in sé tutti questi accorgimenti non significano niente se manca il criterio generale del rispetto verso il giocatore – professionista o dilettante che sia. E’ quel rispetto la mia bussola, la meta ultima a cui tende ogni mia azione.

Non ritieni che uno sforzo aggiuntivo nell’elaborazione dei premi previsti per un torneo (soprattutto per le fasce scacchisticamente più deboli) possa incentivare una maggiore e più appassionata partecipazione? Molti tornei sembrano confezionati per il grande campione presente con i giocatori nazionali nella parte di damigelle paganti. Cosa ne pensi?
Vade retro, Satàna. 🙂 Questa “professionalizzazione” dei giocatori dilettanti è uno dei più gravi problemi del mondo scacchistico in generale. In tutte le altre discipline, si paga profumatamente per nuotare accanto a Federica Pellegrini, per correre dietro a Filippo Tortu o per fare un giro di golf assieme a Francesco Molinari. E nei tornei dilettantistici si vincono prosciutti, bottiglie di vino e viaggi nel migliore dei casi. Invece, per colpe da distribuire in egual modo tra un certo italico sentire e le inconsistenti politiche culturali e agonistiche della Federazione, che ha favorito anziché contrastare questo malcostume, lo scacchista dilettante italiano crede di dover giocare per soldi anche se non ne ha le competenze minime (come un titolo internazionale). Il dilettante dovrebbe scegliere i suoi tornei soprattutto sulla base del rapporto “tempo+denaro/qualità del torneo” e non sulla base delle sue irragionevoli pretese di vincere un consistente premio in denaro.

Quindi cosa resta al dilettante?
Lo scacchista dilettante deve cioè iscriversi a un torneo perché, pagando il giusto, viene messo nelle migliori condizioni di divertirsi e fare esperienza, magari stando accanto ai suoi idoli sportivi. Il resto è un equivoco culturale che andrebbe eradicato il prima possibile, per favorire il ritorno a una pratica agonistica sana – che passa anche per il necessario rispetto verso la figura del giocatore professionista, così diversa da quella dello scacchista dilettante. Ben vengano dunque i premi per i dilettanti, ma vanno presi per quello che sono: un piccolo incentivo alla competitività e non la ragione ultima del gioco. Per questo è fondamentale che siano sempre inferiori a quelli riservati nello stesso torneo alla classifica assoluta, generalmente appannaggio dei professionisti. Un aspetto, questo, che andrebbe normato al più presto nelle regole federali.

Ti invito a riflettere sulla straordinaria app gratuita “lichess” che per uno scacchista impegnato offre davvero tante possibilità di gioco e di perfezionamento. Da qui, le opportunità dell’online aiutano gli scacchi offline oppure ne rappresentano un ostacolo?
Il progresso è sempre un’opportunità. Lichess non fa eccezione. Ma, per scelta, non sono un esperto di gioco online, e quindi preferirei non argomentare oltre.

C’è molta attenzione a coltivare nuove generazioni di scacchisti partendo dal lavoro dei circoli, nell’approccio con le scuole e con l’attenzione alle nuove leve offerte dai tornei. E questa è cosa buona e giusta. Però mancano del tutto (almeno in Italia) opportunità di formazione degli scacchisti più attempati i quali (oltre alla lettura dei libri editi da Caissa Italia) necessitano di un supporto didattico per migliorarsi. Quale è il tuo punto di vista in proposito?
Premesso che non ritengo affatto che ci sia molta attenzione «a coltivare nuove generazioni di scacchisti» (semmai è vero il contrario, visto che non mi risulta che negli ultimi anni ci siano stati aumenti dei praticanti), la domanda è semplicemente meravigliosa e vorrei avere le competenze per rispondere nel merito – competenze che invece non ho. Gli scacchi, come la musica, la pittura e altre attività dell’intelletto, possono avere un ruolo fondamentale in terza e quarta età nella prevenzione della demenza senile e di altre patologie mentali – come pure nel rallentamento di taluni fenomeni fisiologici deteriori. Proprio come alcune discipline sportive hanno dedicato enorme attenzione alla terza età, ricavandosi un mercato e un ruolo sociale di primissimo piano, così gli scacchi potrebbero pensare di rivolgersi a questa fascia della popolazione. Per farlo servirebbe una dirigenza “illuminata” in grado di promuovere un movimento culturale e sociale forte, e non mi pare che ci siano le premesse in tal senso.

Riformulo la domanda: come può migliorare uno scacchista non più in erba?
Tutto dipende dalla sua volontà. Nulla è impossibile, a patto di porsi degli obiettivi ragionevoli e di dedicarci le necessarie ore di studio e impegno, magari meglio con l’aiuto di un allenatore qualificato. Io ho ripreso a suonare il pianoforte dopo quasi quarant’anni e suono meglio oggi di quando andavo a scuola di musica. Però mi esercito anche più di allora e sono più motivato. Lo stesso vale per lo scacchista: se vuole migliorare, deve studiare. Non esistono scorciatoie. E deve farlo studiando i libri giusti, non prendendo il primo Dvoretskij a caso dallo scaffale impolverato solo perché “fa figo”. Se al momento di ricominciare a suonare il pianoforte mi fossi prefissato di suonare i Notturni di Chopin come Pollini ne sarei uscito con le ossa rotte; l’Adagio del Chiaro di luna interpretato da Kempff è però un po’ più alla portata e mi sta dando grandi soddisfazioni. Allo stesso modo, il “giocatore attempato” farà meglio a ripartire dalle basi, a ripassare i fondamentali, a seguire un programma di difficoltà incrementale, evitando di confrontarsi con libri troppo difficili. Oggi tutti comprano libri online alla ricerca di uno sconto e dimenticano che il modo migliore per risparmiare denaro è comprare la cosa giusta…. Per farlo, sarebbe opportuno rivolgersi a un vero esperto di libri di scacchi. A volte basta il consiglio giusto per evitare di perdere tempo e motivazione.

Considerando che nel nuovo organigramma della Fide (2018-2022) sei stato designato segretario della commissione Fair Play, a che punto è la lotta al cheating negli scacchi? Ovvero: quando le linee guida della Fide, con la nuova gestione, potrebbero diventare norme valide in tutti i tornei? E in Italia come siamo messi? (domanda suggerita da Dario Mione)
La lotta al cheating va meglio di prima, perché se non altro esiste un quadro generale di repressione che consente di punire chi delinque. Il compito della neonata Commissione Fair Play (il cui nome è decisamente fuorviante e spero venga presto mandato in pensione) è quello di passare dalla repressione alla prevenzione, fornendo gli strumenti culturali e tecnologici per rendere molto più difficile la vita ai criminali della scacchiera. Se la passata amministrazione ha sempre fatto orecchie da mercante, negando alla commissione gli strumenti per operare, il nuovo presidente Fide ha promesso sostegno alla causa, che è complessa proprio perché prevede azioni ad ampio raggio e dai contenuti “fumosi”, a differenza della repressione i cui strumenti sono più facilmente intuibili.

Come siamo messi in Italia?
Malissimo direi. Basti pensare che, pur avendo “in casa” uno dei massimi esperti mondiali in materia, l’attuale dirigenza federale procede senza un piano preciso e si guarda bene dall’interpellare chi ha le competenze – solo perché quel competente è da anni persona non grata. (Basti pensare che, dal 2014 ad oggi, cioè da quando sono Segretario della commissione anti-cheating, ho ricevuto, in tempi molto diversi e da due persone diverse, la stessa richiesta sulla falsariga di: «Yuri, come sai tu non puoi certo fare da docente al corso federale sull’anti-cheating, ma non è che avresti qualche nome o suggerimento da dare sottobanco per il bene degli scacchi?»). Sono atteggiamenti che non aiutano la lotta al cheating. E’ così che si spiega anche il risultato paradossale di alcuni procedimenti di giustizia sportiva. Solo negli scacchi italiani contemporanei un animale che ha quattro zampe come un gatto, ha il pelo come un gatto, le vibrisse come un gatto e fa miao miao come un gatto poteva essere in realtà un ippopotamo.

Basandosi su dati Fide, l’Italia è una delle nazioni dove si organizzano più tornei di scacchi. Eppure pochi di questi sono di valore assoluto. È soltanto questione di sponsor consistenti che mancano? Oppure c’è una cultura della mediocrità? (domanda suggerita da Guido Tedoldi)
Ancora una volta, paghiamo le conseguenza di una politica federale che non condivido affatto. Il bilancio della FSI si basa in larga parte sul balzello imposto agli organizzatori (9 euro a giocatore, una cifra sproporzionata) e quindi i dirigenti temono di perdere introiti procedendo a una riforma del calendario che tuteli le maggiori manifestazioni nazionali e incentivi la nascita di tornei internazionali degni di questo livello. Il risultato è un sovraffollamento di torneini e torneucci di nullo valore agonistico, che si sottraggono giocatori l’un l’altro. Così invece di avere un solo torneo da 300 giocatori – con i conseguenti ritorni in materia di visibilità, economie di scala, appetibilità per gli sponsor, presenza di campioni – ce ne saranno dieci in contemporanea da 30 giocatori ciascuno, magari sempre gli stessi, con premi risibili che non possono attirare i veri professionisti.
I giocatori di punta italiani da anni sono costretti a giocare all’estero per guadagnarsi la pagnotta. Dove si trova, ad esempio, un torneo che abbia le risorse per assicurarsi la presenza dei primi quattro o cinque della lista italiana? A me ne vengono in mente non più di due o tre in tutto l’anno…

C’è bisogno di riformare?
Assolutamente. Sono convinto che una riforma che vada nella direzione di tutelare chi investe negli scacchi – limitando le “licenze” per i tornei weekend (favorendo quindi la collaborazione tra circoli per sfruttare al meglio la licenza) e “proteggendo” i tornei internazionali a 9 turni e con montepremi di un certo importo – otterrebbe diversi risultati auspicabili: una razionalizzazione in senso qualitativo del calendario, un miglioramento della cultura agonistica e organizzativa, un maggiore coinvolgimento di sponsor di peso, un aumento dei giocatori paganti (perché attrarremmo più giocatori dall’estero). Naturalmente, questa strada passa anche per l’organizzazione di corsi di formazione per organizzatori e dirigenti, possibilmente tenuti da un ampio ventaglio di veri esperti con qualifiche professionali e/o accademiche ineccepibili e con un ruolino di provato successo nell’organizzazione di manifestazioni internazionali. Non dico che sia facile intervenire sul calendario e sulla razionalizzazione delle manifestazioni ma è ovvio che la FSI, che si sente comoda nella situazione attuale senza rendersi conto di quanto stia in realtà soffocando e impauperando il movimento, non sta facendo nulla. Né d’altro canto si vede come potrebbe farlo visto che per riformare qualitativamente un ambiente ci vogliono competenze politiche e manageriali.

Che cosa ha impedito fino ad ora agli scacchi italiani di conquistarsi una posizione di autentico rilievo nel panorama internazionale? Noti, oggi, almeno qualche minuscolo, ma incoraggiante, segnale di cambiamento? (domanda suggerita da Maurizio Scarabelli)
Allora ditelo che mi volete provocare! Non c’è certo bisogno che vi ricordi che i dirigenti federali si sono lasciati sfuggire perfino un certo Fabiano Caruana. E bene ha fatto Fabiano a scegliere gli Stati Uniti, visto che chi avrebbe dovuto farlo non è riuscito a trovare alcuno sponsor che potesse sostenerne la crescita, né a stilare un serio programma di crescita agonistica e sociale. Al di là di qualche soldo dato a pioggia la FSI non ha saputo costruire assolutamente niente intorno a Caruana. Eppure sarebbe bastato poco: rivolgersi a manager competenti in comunicazione, reperimento di sponsor, organizzare tornei per top player, ecc. Quando i soldi che la FSI destinava a Caruana sono diventati irrilevanti, Fabiano ha raccolto armi e bagagli e se ne è andato dove gli offrivano le migliori opportunità di crescita. Non ci voleva certo un aruspice per capire che a un certo punto bisognava far gestire Fabiano a figure più professionalizzate rispetto a quelle che avevano gestito l’adolescente dalle grandi prospettive… Ora, se non è in grado di gestire un campione piovuto letteralmente dal cielo (visto che è arrivato in aereo dagli Stati Uniti, via Spagna), come potrà mai la FSI «conquistarsi una posizione di autentico rilievo nel panorama internazionale»? Permettettemi qui una piccola digressione.

Permesso concesso
Il movimento femminile nazionale da anni, grazie alla presenza di campionesse come Olga Zimina, Elena Sedina e Marina Brunello, ha raccolto ottimi risultati in campo internazionale. Avete visto voi un interesse particolare o un impegno straordinario da parte della FSI in questo senso? Da due anni a questa parte, intuendo le straordinarie potenzialità del nostro settore femminile, Gianvittorio Perico ed io abbiamo cominciato a investire sulle nostre ragazze, proponendole a un parco di imprenditori che ne assiste la crescita, Pentole Agnelli in testa (ma non solo: Banca Alpi Marittime, Sorint, Mangili, Methodo e altre realtà sia locali che nazionali hanno sostenuto a vario titolo il movimento femminile che fa capo a ASD Caissa Italia – e l’elenco è destinato ad allungarsi). Grazie all’impegno del cavalier Baldassare Agnelli (bergamasco, ndr.), le nostre atlete sono seguite tutto l’anno da un allenatore e oggi anche da una struttura medica per la preparazione fisica. Intorno alle nostre atlete abbiamo creato un programma di crescita che prevede, oltre all’allenamento individuale, anche la partecipazione ai tornei organizzati dalla società e alla Coppa Europa. Da due anni ASD Caissa Italia domina in campo nazionale e Marina Brunello ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi e poi ha strappato il titolo di Campionessa italiana alla compagna di squadra Olga Zimina (che lo aveva vinto l’anno precedente). Tutto questo è frutto di programmazione e impegno, realizzato con i piccoli mezzi di una società sportiva dilettantistica gestita part time da tre persone con posizioni lavorative particolarmente gravose. Ora chiudete gli occhi e provate a pensare cosa si potrebbe fare se il bilancio federale fosse gestito da dirigenti in grado di “vedere” queste opportunità…

Stando nell’ambito dell’editoria scacchistica quale futuro intravedi per i libri di scacchi, oltre a continuare nella traduzione in italiano di testi di importanti autori stranieri? (domanda suggerita da Giovanni Basletta)
Un futuro gramo. A fine 2009, nella sede della Regione Toscana, i vertici FSI annunciarono un “cambiamento” del Premio Zichichi per il miglior libro di scacchi, sostenendo di avere un progetto molto dettagliato per mandare avanti quel progetto culturale. Il Premio, a loro dire, non stava funzionando quanto avrebbero desiderato, poiché due (!) case editrici molto importanti per il settore non avevano partecipato per ragioni che non furono rivelate al pubblico. Una decisione, questa della modifica, che fu presa senza consultare le quattro case editrici partecipanti, che erano in numero doppio ma evidentemente “meno importanti”. Fui facile profeta nell’affermare pubblicamente che quello era in realtà un giorno di lutto per la cultura degli scacchi, il giorno in cui la FSI affossava il Premio per il miglior libro di scacchi italiano – e con esso il futuro del libro di scacchi. Dieci anni dopo, la storia mi ha dato ragione: il premio è scomparso e quanto realizzato in sua vece, una misera e nascosta pagina pubblicitaria sul sito federale, è un fallimento assoluto. Con questa “attenzione” verso la cultura è difficile che ci sia una fioritura dell’editoria scacchistica italiana, che infatti langue con numeri di venduto imbarazzanti.

Colpa del digitale e dei giovani che non leggono?
Rientrano in discorsi semplicistici poiché in altri paesi le cose non stanno così. Certo, è vero che l’italiano medio ha una particolare propensione a non sostenere le case editrici che, con rischio imprenditoriale, pubblicano i libri che a lui piacciono, ma il problema è ben più vasto. Il libro di scacchi è un indispensabile strumento tecnico per lo sviluppo degli atleti, ma la FSI non ha alcun programma per promuoverlo, come invece fanno le federazioni più avvedute. Questo atteggiamento, unito all’esiguità del mercato, penalizza tutti: le case editrici che stentano a vivere, gli autori italiani che non hanno incentivo a scrivere, gli scacchisti/lettori che si vedono privati dell’opportunità di leggere opere fondamentali invece disponibili agli scacchisti che parlano altre lingue (russo o inglese in primis).

Qualche esempio pratico?
A fine 2017, Caissa Italia ha dato alle stampe Giochiamo a scacchi. Il gioco più antico e bello del mondo spiegato ai bambini, frutto di una lunga e intensa interazione tra me, l’illustratore Marcello Carriero e il GM Sabino Brunello. Il metodo didattico adottato nel libro, che mira a insegnare con gioia e rigore scientifico le regole e “il senso” dei pezzi e della scacchiera ai bambini in età scolare, è il frutto di una mia rielaborazione di quanto appreso in centinaia di letture e frequentando grandi campioni come David Bronstein e Judit Polgár, per non citarne che due. Ebbene, la FSI non si è nemmeno accorta dell’esistenza di uno strumento innovativo e assolutamente unico nel suo genere per avvicinare al gioco i bambini delle elementari e che potrebbe aiutare moltissimo gli istruttori di base a incuriosirli. Libri come questo hanno costi di produzione esorbitanti e un editore scacchistico puro normalmente non potrebbe affrontarli senza un qualche tipo di aiuto da parte delle istituzioni – anche solo in materia di promozione presso gli istruttori – soprattutto se si pensa che il prezzo di vendita deve essere molto contenuto (in questo caso, € 9,90). Nel caso di Giochiamo a scacchi l’editore era fortemente motivato (e assistito dalle vendite in altri settori) e alla fine i numeri gli hanno dato ampiamente ragione: il mercato premia quasi sempre un prodotto che vale. Ma quanti altri libri di grande qualità invece non vedono mai la luce a causa della stagnazione
culturale del nostro ambiente? Eppure basterebbe così poco… Ma, non tutto il male viene per nuocere.

Cosa intendi?
Intuendo i danni che alcune scelte avrebbero inevitabilmente causato a lungo termine, poco dopo il 2009 Caissa Italia ha virato su altri settori (linguistica, musica, golf, giochi, bambini, teatro e varia) e oggi gli scacchi, pur presenti, sono una parte minoritaria della produzione. In altre parole ho reagito alla sfida considerandola non una minaccia, bensì un’opportunità: quella di indagare le altre aree del sapere in cui avrei potuto far esprimere la casa editrice. Paradossalmente, questa fortunata diversificazione si deve in parte alla miopia dei dirigenti federali… Chiudo con un appello agli scacchisti italiani. Non fate come la FSI. Sostenete le case editrici italiane di scacchi, tutte indistintamente – possibilmente comprando direttamente da loro. Il rischio di fare altrimenti è che i migliori editori specializzati si dedicheranno ad altro per mancanza di redditività. Dopodiché non vi resterà che lamentarvi perché in Italia non si producono più libri di scacchi…

Da pochi anni è cessata la pubblicazione di Italia Scacchistica e Torre & Cavallo è rimasto l’unico periodico italiano in materia. Pensi che ci possa essere spazio per altre pubblicazioni? (domanda suggerita da Giovanni Basletta)
Con poco più di 15.000 tesserati e una platea stantia è già un miracolo se c’è posto per una testata profittevole. Tra l’altro, i miei amici Roberto Messa e Dario Mione sono appassionati e competenti. Aumentiamo i tesserati e sono certo che qualcuno vorrà far loro concorrenza, rendendo più efficiente il mercato. Ma al momento attuale, l’unico altro commento che posso fare è: abbonatevi a Torre & Cavallo! (e comprate libri di scacchi, già che ci siete!)

C’è l’intenzione di correre per la Presidenza federale? Nel caso con quale programma?
Avrò detto, scritto e confermato mille volte che non mi interessa diventare presidente federale. La mia vita è talmente piena che non so nemmeno dove riesca a trovare il tempo per fare tutto ciò che già faccio: al massimo dovrei sottrarre attività, non aggiungerne!

Dacci l’identikit del perfetto presidente?
Essere una guida competente per il nostro movimento, in grado di circondarsi di persone più capaci di sé (da sempre il marchio di fabbrica del leader), che unisca anziché disgregare, che accetti il confronto anziché rifuggirlo, che sappia ascoltare anziché imporre il silenzio, che sia autorevole anziché autoritario, che deleghi anziché accentrare tutto su di sé, che promuova la crescita anziché fare la guerra a tutti i suoi fantasmi e che non si incolli alla poltrona per troppo tempo. Il presidente è una guida che sappia prendere per mano il movimento con il suo carisma e che sappia delegare a persone competenti la crescita, chiedendo aiuto a chi ne sa più di lui. Certamente non sarebbe disprezzabile se un presidente sapesse anche di scacchi di alto livello, di economia, di marketing, di politica, di organizzazione, e potesse anche parlare qualche lingua straniera e partecipare al contesto internazionale.

La partita di scacchi dei big del gioco che ti ha suscitato emozione accompagnata da ammirazione e perché?
La partita di scacchi che ho nel cuore è la Vocaturo-Hillarp-Persson cui ho avuto la fortuna di assistere dal vivo mentre accompagnavo Daniele al Reykjavik Open del 2009. Trovarsi lì mentre concepiva quel capolavoro e tentare di capire cosa aveva visto lui è un’emozione scacchistica che difficilmente proverò con la stessa intensità (anche se il meraviglioso bluff contro Nizhnik che gli garantì la vittoria al Corus C di Wijk aan Zee 2011 per poco non mi costò una sincope, ma questa è un’altra storia). Dal punto di vista squisitamente “intellettuale”, 7…Tg8 nella Aronjan-Kramnik (3° turno del Torneo dei Candidati di Berlino 2018) è la cosa più bella che ho visto negli ultimi anni. Ecco, se parliamo di ammirazione e non di emozione, la mia palma va a Kramnik.

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