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Mythos e logos sono parole chiavi del nostro sapere. Hanno attraversato la storia della cultura occidentale. La prima più legata alla letteratura, alla narrazione; l’altra alla tekné, alla costruzione, all’incastro del discorso. A loro si aggiunge il poiein, il discorso poetico, il fare che apre alla possibilità, che non descrive o dice ma annuncia o immagina qualcosa che si potrà fare o si sarebbe potuto fare.

Mythos è già nel suono gutturale, suono muto e senza senso preciso da cui si origina il senso. Logos è parola sfaccettata. Il Vangelo di Giovanni inizia con “in principio era il logos” e nel Faust (Goethe) il protagonistasi cimenta nella sua traduzione. In una giornata brumosa Faust ha incontrato un cane randagio che porta a casa preso da compassione. Insoddisfatto si mette a pensare la parola. E’ davanti al caminetto, il cane accucciato. Scarta der Sinn (significato) troppo debole, non lo soddisfa die Kraft (forza) finché intuisce die Tat, l’azione, la capacità di agire. In quel momento il cane si trasforma in Mefistofele, il diavolo. Mefistofele propone un patto, l’azione giusta: poter conoscere, provare, dominare in una nuova giovinezza, in cambio dell’anima. Ma sarà un’altra azione a salvare Faust.

Mythos e logos non si contrappongono, la poesia li tiene insieme. Per Gianbattista Vico (Scienza nuova) la verità è storica. Tre sono le età del mondo, degli dei, degli eroi, degli uomini, ciascuna con un proprio linguaggio emergente ma senza escludere gli altri. La lingua dei primi popoli è dominata dalla fantasia, una lingua mitica, in contatto coi segreti del mondo, con una sua logica, non estranea alla conoscenza, capace di comunicare e di dire il mondo – “dire l’essere” secondo Heidegger – con le parole che nascono dalle impressioni sensibili e hanno logica emozionale.

Non è la logica cartesiana. Cartesio non era per il mito. Le parole devono essere chiare. Il parlare dei poeti tende a confondere e confonde, come accadeva secondo lui nelle scuole piene di retorica, dei Gesuiti. Il parlar poetico non è linguaggio della filosofia, rimproverava Husserl ad Heidegger.  “Parlate il basso bretone”, esortava i suoi lettori Cartesio, che era un ammonimento a ragionar bene.

Già si cambia con l’Illuminismo. Di solito è considerato l’età della ragione, del parlare lineare. Invece per Diderot la profonda verità è “geroglifica”, ci vuole una lingua espressiva, che sappia toccare le corde del sentimento e la poesia è una forma di conoscenza.  Pensieri che il Romanticismo accentuerà. Per Novalis il poeta è veggente, la sua opera va al cuore della verità. Il mito restituisce l’organicità del senso, che il logos frantuma. Il poeta ha nostalgia di casa (Heimat), vuol ritrovare sé stesso. I Romantici guardano indietro, hanno il senso dell’origine, si propongono di ricuperare la vita nella sua interezza, com’era all’inizio prima delle varie lacerazioni.

Valery nel poemetto Il cimitero marino (1920) pensa alla morte e alla vita come elementi originari dell’uomo. Posto su una rocca dove ogni punto è affacciato sul mare, il poeta vede lontano, è alle prese con la forza dell’universo che è la forza dell’uomo e del suo bisogno di rigenerazione. All’inizio non è il logos ma il mito che sta per il reale, ciò che esiste. La poesia basta a sé, è “indecidibile connessione tra suono e senso. Contro la parola filosofica e razionalizzante, o la parola dell’esteta che separa il bello dalle cose belle, la poesia restituisce il senso del mondo. La filosofia troppo spesso gioca con le parole e non coglie la concretezza delle cose.  Il mito va alla radice, dove il linguaggio ha origine. Non si ferma là dove l’antinomia ha la pretesa di risolversi ma dove semmai ha nascita. Non cerca la soluzione ma un’azione di vita. Il mito fa capire la finitezza dell’uomo, lo aiuta a riempire i vuoti. Spinge ad un’azione forte, a un sapere che sa rinnovarsi perché non è mai colmato.

(Elio Franzini a Noesis 202/23. Sintesi della lezione dal titolo La parola poetica tra mythos e logos all’Auditorium Mascheroni di Bergamo, 7 marzo 2023)

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