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Silvano Petrosino e Gabrio Forti hanno discusso con il pubblico, tra i presenti il Vescovo Mons. Francesco Beschi, la loro ultima fatica Logiche Follie. Sacrifici umani e illusioni della giustizia (Vita e Pensiero) alla Comunità Missionaria del Paradiso a Bergamo.

I due si sono accomunati sul tema della pena, dai rispettivi versanti di competenza, antropologico e giuridico vista dal versante morale e antropologico e dal versante del Diritto penale. La pena si accompagna all’idea di sacrificio. Petrosino, docente alla Cattolica di Milano di antropologia filosofica, è partito dall’idea di sacrificio. Il sacrificio ha sempre accompagnato l’uomo dagli albori della società alla storia ciascun uomo particolare nella sua crescita e formazione, dalla nascita alla morte. L’uomo ha “inventato” il sacrifico come risposta all’idea che Dio ha bisogno del sacrificio. E gli uomini si sono subito dimostrati disposti ad accontentarlo. Un sacrificio che non ha riguardato qualcosa di esterno o distante da lui ma qualcosa di vicino, caro, fino alla vita del figlio, il primogenito.

Suvvia Abramo, prendi tuo figlio, il tuo unico che tanto ami, e offrilo come olocausto sul monte che ti indicherò” (Genesi 22). Il sacrificio chiede Agamennone per vincere la guerra. “Sacrificherò chi per primo incontrerò”. E gli capiterà la figlia Ifigenia. Su tale sentimento s’innesta l’idea di risarcimento. Al reato si risponde con la pena, fino alla pena di morte. Non si uccide per necessità, per difesa, per minaccia nè utilità. Non solo per togliere di mezzo l’orso che aggirandosi nei boschi mette a repentaglio la vita di chi passeggia, né come capita al soldato che spara al nemico. Qui si parla di uccidere per giustizia, per affermare la giustizia.

Ma lo stesso Dio che mette alla prova la fede di Abramo così parla per bocca del profeta Isaia (57): “Alle spalle di chi vi divertite?/ Verso chi aprite larga la bocca/ e cacciate fuori la lingua?/ Voi che vi infiammate sotto l’albero del terebinto,/ che scannate i figli in valle,/ sotto i crepacci delle rocce?” Sembra che il sacrificio sia in contraccambio, do ut des. Come ha incominciato a fare l’agricoltore che ragiona tra sé: “Se ricavo dieci, uno lo offro. E per avere di più offrirò di più”. Il sacrificio come scambio, si paga per avere. Un’assicurazione a vita. In verità Dio chiede ad Abramo il sacrificio ma per sospenderlo, per convertire l’immaginario dell’uomo. “Voglio l’amore e non sacrifici”. Come nel film King Kong. Il bestione minaccia e per tenerlo buono gli si offre una vittima. Nella logica del contabile. Poi l’imprevisto: King Kong s’innamora della giovane donna. E tutto sbanda.

Per il professor Gabrio Forti, docente diDiritto penale nella stessa Università, vede il sistema giudiziario offuscato dall’ombra della tracotanza (ùbris). Lo si è visto anche nei recenti provvedimenti volti ad aumentare la pena. Sembra che all’indebolirsi dei legami con il reale e con il vivere dei più la classe politica e di chi detiene un qualche potere si cerchino scappatoie. La giustizia cade nella vendetta. Incredibili errori di persone qualificate, crac finanziari provocati da scelte assurde –  con l’acquiescenza di chi si circonda il potere, vedi il caso Ucraina – rovinano in rappresaglia. Una giustizia senza speranza.

La letteratura illumina. Faust nel dramma di Goethe ha chiesto a Mefistofele di fargli assaporare la leggerezza e la libertà della vita. E’ disposto a stringere un patto con lui ma nel momento di uscire dalla stanza s’arresta impedito dal pentagramma – simbolo di Cristo – disegnato sulla soglia. E Faust: ”Anche l’inferno ha le sue leggi”. I patti sono patti e ad essi bisogna soggiacere. L’uomo no, vuole dettare a Dio le leggi. Con il sacrificio pretende di stare alla pari. Atto di tracotanza! L’uomo è ossessionato dalla propria finitezza, dalla morte. La morte teme, non la vede ancora, ma la sente.  Lontano dal pensiero di Spinoza per il quale saggio è colui che a tutto pensa tranne che alla morte.

E lega la giustizia alla morte. Si dà la morte per riscattarsi dalla propria. Si reclama la pena di morte volendo allontanare la morte. Eppure secondo lo studioso americano David Garland, non ci sono prove che la pena di morte faccia diminuire il numero dei reati. E’ soltanto una bandiera che rende popolari, per chi la propone e chi vi si oppone. Invece irrecuperabili restano le devastazioni del reato, nella propria e altrui vita. Nella logica di una pena che mira a riparare i danni causati dal reato, il futuro si apre. La vendetta, che è l’essenza della giustizia penale, è, secondo Nietzsche, la rivolta della volontà contro il tempo. Ma cancellare quel che c’è stato è illusorio. “Mnemosine” è ricordo che inchioda, come Elettra che vive per vendicare il padre Agamennone ucciso dalla moglie Clitennestra, nella spirale infernale dell’odio. La giustizia riparatoria serve invece per ricominciare.

C’è un romanzo di uno scrittore tedesco un po’ dimenticato, Adelbert von Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl) in cui il protagonista vende la propria ombra al diavolo. ”Che me ne faccio dell’ombra? In cambio lui mi offre un enorme prezzo!”. Ma privato dell’ombra si accorge che non è più lo stesso, non è più uomo, e di tutto farà per riconquistarla. L’ombra non è che la negatività, la finitezza, la morte che va accettata.

D’altronde come giudicare? Troppe le variabili. Il giudizio penale chiude anelli giocati altrove. Rabelais, autore burlesco del Gargantua e Pantagruel, racconta di un giudice che diceva in fine carriera: “Ho emesso all’incirca quattromila verdetti tirando a dadi, con le parti sempre soddisfatte. Al caso quattromila uno è successo un pandemonio”. “Perché?” gli chiedono. “Ormai anziano non riuscivo più a leggere i numeri”.


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