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Nella cattedrale di Vaduz, la capitale del Liechtenstein, situata ai piedi della parete rocciosa sulla quale si erge il grande castello principesco, nel mezzo della camenàda centrale, è esposto in bella vista, aperto sul leggio da tavolo appoggiato sopra un robusto piedistallo, un grosso libro, con tante pagine quanti sono i giorni dell’anno, su ciascuna delle quali sono riportate le generalità degli abitanti del Principato deceduti quel giorno, dal diciassettesimo secolo sino ai nostri giorni.



Ricordando Don Emilio, parroco di San Simù

Ciò è possibile per il piccolo Stato, nel cuore dell’Europa centrale, che conta poco più di trentasettemila abitanti, paragonabile – sul piano demografico, non certo su quello finanziario – a una piccola realtà lombarda, come è quella della Valle Imagna, che supera di poco le trentamila unità di residenti stabili. Una proposta utilmente trasferibile anche da noi. Ma la riflessione è un’altra: le piccole comunità locali sono generatrici di memoria, poiché fondano la loro esistenza sui rapporti diretti e per lo più personali tra i diversi membri, dove pure coloro che sono passati nell’Aldilà continuano a manifestare la loro presenza nel gruppo, che così si rafforza. Il loro nome continua ad essere presente e pronunciato nel luogo più importante per la comunità dei cattolici, la cattedrale. Una lezione di modernità. Ecco l’insegnamento: ricordare i morti ci aiuta a rimanere vivi e ad affrontare meglio le questioni che riguardano il tempo presente. Le genti della montagna hanno sempre fatto uso della memoria. Polénta e memoria. Ricordare le persone trapassate e trasmettere le conoscenze, soprattutto di natura empirica, era una condizione essenziale e irrinunciabile per la sopravvivenza. Anche un modo per non sentirsi soli. Purtroppo, al giorno d’oggi, il tempo si spezzetta sempre di più nelle forbici della memoria e capita spesso che il richiamo alle cose e alle persone del passato venga rifiutato, perché confuso come un atteggiamento nostalgico, oppure di stile rétro, dimenticando così la storia. Il mio pensiero corre, in questo momento, a Don Emilio Masserini, parroco del villaggio di San Simù dal 1959 al 1993. Giunse per la prima volta quassù, con l’incarico di parroco, il quindici febbraio di sessant’anni fa, nel 1959. Faceva freddo, quel giorno, e gh’ìa dó ü bèl pachèt de niv. La nuova strada carrale era stata da poco sbozzata e il fresco manto di neve la rendeva impraticabile con qualsiasi mezzo rotante. Gli toccò salire a piedi dalla Felìsa (a Selino Basso), dove un gruppo di parrocchiani si era recato per accoglierlo e accompagnarlo sin quassù, sopra la Còrna dol Somensì, nella sua nuova dimora. Alle spalle aveva già accumulato dodici anni di servizio pastorale, quale coadiutore parrocchiale, a Berbenno, sempre in Valle Imagna, dove si era dato da fare con i giovani di Azione Cattolica. A San Simù sarebbe poi rimasto altri trentaquattro anni (trentuno come parroco e gli ultimi tre da amministratore parrocchiale), cioè sino a quando, sopraggiunta l’età del riposo ed essendo venuto meno anche il suo stato di salute, a ottant’anni si ritirò a Vall’Alta di Albino, vicino ai suoi parenti.

Don Emilio Masserini durante le Prime Comunioni (bambini del 1954)

La preoccupazioni per i giovani

Prete nei primi lustri del secondo dopoguerra, Don Emilio ha vissuto le difficoltà e le speranze degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, coinvolto dagli intensi e repentini cambiamenti della società. L’emigrazione all’estero ha rappresentato una preziosa valvola di sfogo alla mancanza di lavoro nel paese: squadre di lavoratori – boscaioli, contadini, muratori,… – partivano a decine in primavera, diretti nei Paesi d’oltralpe, soprattutto in Svizzera, per far ritorno nel villaggio solo a fine novembre. I lavoratori stagionali, infatti, non potevano rimanere all’estero più di nove mesi consecutivi. Era una comunità-fisarmonica, quella di San Simù: si restringeva l’estate per rigonfiarsi l’inverno. Due cari amici, Alfonso Modonesi e Pepi Merisio, che proprio in quel periodo entravano in valle, provenienti dalla città, per documentare gli ultimi respiri dell’antica civiltà rurale della montagna orobica, incontravano nelle contrade solo donne, vecchi e bambini. Gli uomini erano all’estero per lavoro. Nello stesso periodo, inoltre, molte famiglie si trasferirono definitivamente all’estero e intere contrade si spopolarono improvvisamente e molte porte e finestre rimasero chiuse anche l’inverno, per sempre. L’emigrazione interessò anche la figura femminile del gruppo, determinando la rottura di quel legame che teneva agganciata la famiglia al villaggio. Nel frattempo in paese aumentavano gradualmente i servizi: le strade carrali giunsero nelle contrade, l’acqua potabile nelle case, e così pure luce elettrica e telefono. Ma ormai era troppo tardi, perché l’emorragia era già iniziata e aveva preso il sopravvento. Un flusso irrefrenabile. Don Emilio ha vissuto dal di dentro queste situazioni, disarmato di fronte al dilagare dei nuovi fenomeni sociali, anche sul piano del cambiamento dei costumi, ormai senza argini. Stavano per venir meno anche le certezze di sempre: della famiglia, del lavoro della terra, della stessa pietà popolare. I Paesi d’oltralpe rappresentavano allora una frontiera pericolosa, dove era dilagata la cultura protestante, uno spazio nuovo, poco conosciuto e possibile causa di perdizione sociale e religiosa. Don Emilio si preoccupava per i suoi giovani sparsi in quel contesto. Anche i contatti epistolari che ol Preòst manteneva con le persone emigrate all’estero non erano sufficienti per mantenere viva una relazione, destinata gradualmente ad affievolirsi, come la luce di una candela consumata dal tempo.

Un ministero di bene

Nonostante la società gli stesse per sfuggire di mano, nel piccolo villaggio di San Simù Don Emilio continuava ad essere ol Preòst: il titolo lo collocava ai più alti livelli della scala sociale nella comunità, una sorta di intermediario tra l’uomo e Dio. Fàga ü tòrt al preòst significava pregiudicarsi l’amicizia con la divinità ed entrare in una condizione di peccato. Ol preòst aveva il potere di benedire – e ciò lo rendeva benviso – ma poteva essere in possesso anche di segni malefici, trasmessigli da quanti volevano liberarsene. Per una serie di ragioni, dunque, valeva il detto che al preòst besognàa leàga ol capèl e laghàl ‘ndà per la sò strada. A San Simù, Don Emilio non ha fatto altro che del bene. Egli fa parte di quella schiera di parroci che hanno legato indissolubilmente la loro vita a una comunità e nei villaggi rurali e di montagna tale relazione è stata ancora più forte. Dopo di lui, solo preti itineranti, di passaggio. Don Emilio ha lasciato un segno, non tanto nelle opere, ma come presenza: ha speso la sua vita per la popolazione della Valle Imagna. È stato il prevosto di una generazione di valligiani, quella degli anni Sessanta, la mia. Eccoli, i parroci montanari, schivi ma determinati, cocciuti e combattenti, che hanno immedesimato e si sono immedesimati nelle rispettive comunità, Don Beniamino Cappelletti a Brumano, Don Piero Arrigoni a Morterone, Don Amadio Moretti a Fuipiano e, infine, Don Emilio Masserini a Corna Imagna: insieme a presidiare i villaggi situati a Nord-ovest dell’Alta Valle Imagna, sulla linea di displuvio che la separa dalla Valsassina, dalla Val Taleggio e dalla Val Brembilla. Fatta eccezione per Don Piero, che viveva al di là della Piàcca, gli altri tre prevosti collaboravano e si ritrovavano durante le principali solennità e soprattutto per i funerali, di prima, seconda e terza classe.

Il gruppo dei bambini dell’Asilo infantile di San Simù, 1965

Sensibile alle fatiche dei parrocchiani

Don Emilio mi ha battezzato e ha seguito, pari passo, tutte le vicende della mia vita, sacramentali e non, dalla fanciullezza all’età adulta, compresa la parentesi di studi in seminario. Mi ha visto crescere. È stata una figura onnipresente. Nel villaggio l’ìa ol Preòst, ma all’occorrenza assumeva le funzioni di giudice conciliatore, consulente per le famiglie, uomo di pace e di fiducia, punto di riferimento per la comunità, àncora di sicurezza. Ricordo ancora bene, come fosse appena accaduto, quel “processo” in canonica, quando, bambino alle elementari, verso la fine degli anni Sessanta, assieme ad altri compagni avevo procurato un incendio nel nuovo garage del nonno, fò a la Césa: Don Emilio convocò nel suo studio tutti i ragazzini coinvolti, con i loro genitori, per ricostruire le diverse responsabilità; tutto si svolse in modo molto ufficiale, con interrogatori separati, riscontri e confronti, acquisizione di testimonianze diverse. Infine la sentenza e… le varie romanzine! Di carattere schivo, Don Emilio ha condotto una vita riservata, ritirata – come un romito nella sua residenza austera – assistito dalla Silvia, la sò sèrva, proveniente anch’essa da Gazzaniga, il paese originario di entrambi. La porta della canonica era sempre aperta, prospicente alla chiesa parrocchiale, lì a pochi passi, dove Don Emilio si recava abitualmente, più volte al giorno, sempre rigorosamente vestito co la sò èsta, che il ruolo gli imponeva. Ha vissuto da custode della chiesa che gli era stata assegnata, oltre che nello svolgimento della pastorale per la cura delle anime. Non aveva né patente, né automobile e si spostava solo per necessità: dal medico, all’ospedale per visite sanitarie, in banca alla Felìsa per depositare le elemosine della settimana, a Bergamo in Curia, negli altri villaggi per l’assistenza religiosa. Una volta all’anno faceva visita alle famiglie, raggiungendo a piedi le varie contrade, per la questua e la benedizione delle case, accompagnato dal Bèpo, il suo fedele sacrista. Si avvaleva dell’automobile del Pacióla solamente per i viaggi fuori dal paese. Non frequentava le osterie e di norma declinava gli inviti ai pranzi di nozze, limitandosi semmai a una veloce comparsa, per onorare l’evento. Formato nella Chiesa preconciliare, si è dovuto confrontare, anche nella piccola realtà del villaggio, con le novità non indifferenti introdotte dal Concilio Vaticano Secondo e le grandi istanze di rinnovamento della società, anche sul piano religioso. Non è stato facile. Ma fin quando ha potuto e le forze fisiche glielo hanno permesso, non ha cessato di praticare le antiche ritualità connesse alla vita e al lavoro nel contesto rurale, come quella delle rogazioni nei campi, limitando negli ultimi anni le processioni lungo i percorsi tra i prati fò pus a la césa. Anch’egli, del resto, proveniva dal mondo contadino e quindi sapeva comprendere le fatiche, i sacrifici, le speranze, il lavoro dei suoi parrocchiani. Nello scantinato della canonica allevava alcuni conigli e pure le galline, oltre a coltivare l’orto nel praticello circostante, condividendo la condizione sociale degli abitanti.

Don Emilio Masserini con i bambini delle classi 1960 e 1961 di San Simù nel giorno della loro Prima Comunione.

Tra catechismo e funzioni

Nei primi anni Sessanta anche Don Emilio ha partecipato alla generale corsa verso la conquista dei nuovi servizi, adoperandosi ad esempio per la costituzione dell’asilo infantile di San Simù, che nel 1962 iniziò l’attività. La gestione parrocchiale faceva capo al Preòst, che fungeva da presidente, ma nella Commissione facevano parte anche il Sindaco (Pierino Locatelli) e la maestra (Iolanda Colantuoni). A fianco dell’asilo era stato istituito anche il consultorio pediatrico. E poi c’era la brava Marièt, cuoca e anche assistente educatrice, diremmo oggi, per tenere a bada il gruppo di bambini, abituati all’aria aperta, poco inclini alla vita ristretta in spazi chiusi. La Marièt, proveniente dalla contrada Canìt, raggiungeva tutte le mattine il centro del paese e, prima dell’inizio delle attività didattiche, accendeva la grossa stufa alimentata a carbone coke, unica fonte di riscaldamento di quel modesto ambiente. Il grosso sacco contenente il mucchio di ovuli neri – una vera novità per noi bambini – era riposto in uno stanzino buio e isolato, che fungeva da minaccia per la reclusione dei più discoli. Besognàa fà i bràe se s’vülìa mia finì seràcc dét en dol büs dol carbù! Don Emilio frequentava abitualmente, tutti i giorni, l’asilo, consapevole delle sue funzioni educative nella comunità, come pure la scuola elementare, dove insegnava religione una o due volte la settimana; avrebbe poi continuato l’insegnamento la domenica, nel primo pomeriggio, col dutrinì, prima de la Teréna. Il catechismo di Pio X era da studiare a memoria, sö chèl libritì pié de orègie. Ol dutrinì era suddiviso in due parti: prima l’interrogazione, poi la nuova spiegazione. “Chi ci ha creato? Ci ha creato Dio. Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra. …”. Ad ogni domanda corrispondeva mnemonicamente una precisa risposta. Non c’era scampo. Una volta, non avendo studiato il catechismo, Don Emilio mi prese per le orecchie e mi fece inginocchiare en mèssa a la camenàda della chiesa. Con me c’era anche un altro compagno di sventura, ma non ricordo esattamente chi fosse. Tutte le domeniche c’era qualche malcapitato in ginocchio, per punizione, in mezzo alla chiesa. Saremmo dovuti rimanere lì, come in una gogna, inginocchiati, durante tutto il tempo della dottrina pomeridiana e dei Vespri. Una situazione insopportabile anche per due bambini, sentirsi derisi dai parrocchiani. E poi saremmo stati visti dai nostri genitori, che a casa non avrebbero mancato di rincarare la dose con ulteriori punizioni. Così, mentre ol preòst si era ritirato in sacrestia per istìss sö, siamo scappati, uscendo dalla chiesa. La domenica successiva c’era un po’ di timore al dutrinì, ma Don Emilio aveva già dimenticato l’accaduto, comprendendo probabilmente la nostra difficoltà a sostenere il giudizio della comunità dei fedeli. Don Emilio sapeva anche perdonare.
Un’esistenza completamente dedicata alla Chiesa, quella di Don Emilio, ma anche alle persone, alla comunità, all’istruzione religiosa, alla trasmissione delle fede, alle pratiche della pietà popolare. Prete di montagna, con una fede semplice e concreta, forte e salda. Punto di riferimento per le famiglie distribuite nelle contrade, vigile sentinella dell’edificio di culto assegnatogli, protagonista delle celebrazioni religiose, educatore, esempio di dedizione alla vita pastorale. Sempre presente. Quanto sono cambiate le cose in questi ultimi sessant’anni!.

Contributo di Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna


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Autore

Antonio Carminati

Direttore del Centro Studi Valle Imagna

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