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Il 20 novembre 1972 moriva Ennio Flaiano, intellettuale tra i meno “organici” e i più eclettici del ‘900 italiano; Ennio Flaiano ha affrontato diversi generi culturali: la narrativa, la poesia, il teatro, la critica letteraria e cinematografica, la memorialistica, il giornalismo, il racconto di viaggio, l’epigramma, la sceneggiatura cinematografica, e sempre con ottimi risultati. È stato vincitore della prima edizione del Premio Strega, sceneggiatore di oltre sessanta film con i maggiori registi del tempo. C’è la lunga (15 anni) collaborazione con Federico Fellini: “La dolce vita”, “I vitelloni”, e “8½” con cui vinse l’Oscar. Ennio Flaiano ha collaborato con le maggiori riviste letterarie e testate giornalistiche. Insomma uno degli autori più perspicaci e intelligenti, eppure colpevolmente dimenticati della cultura italiana: o forse proprio per questo.

Di lui, bene che vada, si ricordano solo alcuni aforismi, come se fosse un semplice macchiettista, e alcuni neologismi, vedi vitelloni e paparazzi (usatissimi senza sapere che sono suoi, ma non è una colpa), eppure ha scritto e vinto di tutto, sempre con ironia e spesso con satira sferzante, esprimendo il disagio di vivere l’esistenza nella società dei consumi, piena di “cretini pieni di idee”, vivendo con sofferenza “la solitudine del satiro” nella “società di massa come assoluta banalità”, senza nemmeno provare l’onore dell’albatro baudelairiano. In quell’Italia del boom culturalmente arretrata, intollerante, in cui l’unica cosa che funzionano sono i miracoli quotidiani, “il teatro è limitato all’happening”, “gli aeroporti sostituiscono le cattedrali, gli alberghi le abbazie, e lo shopping la conoscenza” (E.O.P., 1965), lui si sente come “un marziano a Roma”, un corpo estraneo a quella città che l’ha accolto e che non ha più nulla dell’Urbe che fu.

Roma non è “una città ma un bivacco di rovine”, le strade dell’Urbe antica si sono trasformate nelle spiagge della Rimini felliniana con i loro ombrelloni, i drinks, il passeggio dei vitelloni senza scopo se non il vincere il tedio, Roma la nuit che diventa Roma l’ennui, la noia declinata nella neolingua del villaggio globale che tutto livella e che tanto lo angoscia. Le sue opere raccontano la quotidianità universale ricorrendo spesso al fantastico, al surreale, all’allegoria. Sono l’opposto del neorealismo dominante all’epoca, Moravia sempre candidato al Nobel è lontano, e “La dolce vita” non trova un produttore. Tra i tanti personaggi mi rimangono scolpiti il giovane Tristano salvato da una rosa con cui stringe un rapporto amoroso, salvo poi perdere l’amore e la vita per aver pensato di trovarle nei bagordi della moderna città dei balocchi.

E poi la giovane e bella abissina uccisa dall’ufficiale italiano cui pure aveva donato il suo corpo e il suo amore, e che farà dire al graduato: “i suoi occhi mi guardavano da duemila anni”. Il libro Tempo di uccidere (con cui vinse lo Strega) è la denuncia del Flaiano ufficiale durante la guerra d’Etiopia, la più vergognosa e la più rimossa per noi italiani, la denuncia dell’umana indecenza della guerra italiana, della corruzione e del cinismo delle truppe al servizio del generale De Bono, del falso eroismo militare, delle scorciatoie della carriera militare per arricchirsi. Di vero c’erano solo quegli occhi innocenti che da duemila anni guardavano i massacri dei popoli locali, le rappresaglie dei villaggi, gli stupri delle donne. Fiero oppositore della volgarità della demagogia e del populismo, l’opera di Ennio Flaiano mi sembra più che mai attuale: se penso a certi “intellettuali” del giorno d’oggi che spacciano per novità pensieri, parole, opere scritte cinquant’anni fa, non posso non notare che peccano in omissioni.

L’incipit di Tempo di Uccidere

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