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Giuseppe Marotta aveva sempre avuto un occhio di riguardo per la scrittura. Da adolescente qualche poesia o racconto, il giornale tra amici. Mandava i suoi scritti ovunque, a quotidiani, settimanali, periodici. Si propose come correttore di bozze. Entrò nel mondo della carta stampata, cominciò a conoscere giornalisti e finì giornalista come aveva desiderato. Scrivere divenne il suo lavoro e la sua passione. Poteva fare la fame, non mangiare per un giorno, aver la tentazione di “mangiare coriandoli in quel venerdì di carnevale del 1927” come racconta in A Milano non fa freddo. La pancia si poteva regolare. Era arrivato al Corriere e ad un certo benessere. Quando si sposò, con i figli a carico, si ripresentarono i problemi economici. Tenne spese pazze, tanti soldi entravano ed altrettanti sparivano.

Da Napoli a Milano poi a Genova, ancora a Milano e Roma. Napoli restò nel cuore, nei suoi scritti: “lontano dal mio paese, d’improvviso Napoli e la mia giovinezza e persone e vicende che lo abitarono o che vi affacciarono appena, si sono messi a chiamarmi, proprio con un’insistenza dei vicoli partenopei, tenera e perentoria: o meglio mi hanno fatto sapere che non ci eravamo separati mai, che sempre le avevo portate con me”.

Montanelli scriveva di lui che non aveva avuto istruzione, o meglio se l’era fatta da solo, impegnato com’era di giorno nei più umili mestieri: “Ha sempre scritto con Napoli in testa, ma è stata la sua gabbia, dorata”. Da cattivello il principe del giornalismo italiano aggiungeva: “Peppino crebbe in basso e l’odore che gliene rimase per sempre addosso ha fatto insieme la sua fortuna e la sua disgrazia. Il basso gli fornì i modelli di quella variopinta e poetica galleria di personaggi”. Lo stesso Marotta d’altronde ammetteva: “Ritengo che il Padreterno sia inseparabile dalla mia infanzia e dai miei vecchi e dalla mia casa. Credo che Iddio sia napoletano come me e per questa ragione mi capisca e mi aiuti”. In contatto con lui furono Zavattini, Guareschi, Mosca, Cavallari, Monelli. Sensibile alle amicizie e pronto ai litigi; come ricorda Zavattini, “dall’amico chiedeva e dava tutto”.

Nelle varie redazioni, anche in contemporanea, il suo lavoro si moltiplicò. Scriveva senza ammettersi pause. Non solo per il Corriere, la Domenica del Corriere, il Corriere dei Piccoli, ma anche La Stampa, giornali satirici come il Guerin Meschino, settimanali cinematografici come Film. Infatti tentò la strada della sceneggiatura e gli andò bene con L’oro di Napoli (1947), il libro che lo rese celebre.

Mi piace Marotta. Mi piacciono i suoi racconti, come i racconti in genere che posso leggere prima di dormire, qualche pagina e la storia si conclude. O forse sono alla mia portata. Si vede che Marotta viene dal giornalismo. Trasuda di fatti di cronaca, di vita vissuta, di fatti strambi che capitano, fatti di vicolo, come racconta: la moglie del pizzaiolo che lascia l’anello nella pasta della pizza, i pernacchi di Don Pasquale variegati per tutti i gusti, la donna in età di maritarsi, il guappo di quartiere, la riffa – il numero vincente – preludio al matrimonio, la pantagruelica bancarella del fruttivendolo Aniello prima di Natale, il ragù della domenica di Don Ernesto che ha tanti figli avuti in vari modi, il nobile incallito al gioco e immancabilmente perdente, e diseredato, si riduce a giocare con un ragazzino che lo fa di malavoglia. Ho rivisto il film di De Sica e lo consiglio.  

Marotta è sempre mosso dalla pietà. “Il mondo è gremito di infelici; ciascuno parla la lingua del suo dolore che per gli altri non ha senso“. A Napoli come a Milano, la città della nebbia e del freddo che viene giù dalle Alpi, e delle campane che i nativi apprezzano più dei forestieri (A Milano non fa freddo 1949). Milano che fu, che “sorride a Porta Venezia, frenetica in Corso Buenos Aires dove trovi il carrettino del libraio, il venditore di occhiali e penne stilografiche, il triciclo del gelataio – lo si sfiora se vuoi entrare nello scintillante Caffè – il banco delle Angurie, le botteghe da vinaio e quelle strette dove non ci si può muovere, le valigerie con i rozzi bauletti dove respiri gli interminabili viaggi notturni in terza classe”. Come per lui, su e giù, da Milano a Napoli.

Marotta vuol comunicare, si scaglia contro le ingiustizie, segue con pietà il destino delle persone incontrate colorandone le vicende di fantasia. Si ritrova negli squinternati. Politico? non proprio. Sopravvive durante la guerra senza gesti eroici. Leggere Marotta è sentirlo compagno di vita, almeno per un breve pezzo. Morì a 61 anni, di emorragia cerebrale. Fumava come un turco. “Pia, Pia, la testa” le ultime parole alla moglie.

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