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A proposito di intrecci di date, in questi giorni ricorrono eventi che hanno segnato la nostra vita che si riannodano e si richiamano, come se la memoria reclamasse di non essere dimenticata.

Il 17 maggio 2022 ricorreva il 50esimo anniversario della morte di Luigi Calabresi, il commissario gentile e curato nell’abbigliamento, lontano dal clichè dello “sbirro” mutuato dallo scelbismo postbellico e prorogato dalla Legge Reale del 75, cattolico e alieno ad ogni forma di violenza. Basterebbe chiedere a Mario Capanna, dirigente del Movimento che venne protetto dal commissario dalla rabbia dei poliziotti durante i funerali dell’agente di PS Antonio Annarumma, ucciso il 19 novembre 1969 a Milano in una manifestazione.

Luigi Calabresi, romano, nel ’66 – a 29 anni – viene mandato a Milano: il 12 dicembre 1969, strage di Piazza Fontana, è l’alba della “notte della Repubblica” (S. Zavoli). Nulla sarà più come prima, iniziano gli anni di piombo, la strategia della tensione, un romanzo criminale fatto di stragismo nero e terrorismo rosso che si snoderà nel decennio lungo del secolo breve. La linea di faglia che percorre la dorsale sociale dall’8 settembre del ’43, si riapre, fa tremare l’Italia come un terremoto, inghiotte vittime e famiglie. Tra il ’69 e l’80 si registrano circa 360 morti ammazzati e non si sa quanti feriti. All’indomani della strage, da Roma arriva l’ordine di indagare sugli anarchici; a Milano il circolo di riferimento è il Ponte della Ghisolfa. L’incarico tocca al giovane Calabresi. Lui sa già che non sono stati quelli, li conosce, conosce soprattutto Giuseppe Pinelli, un ferroviere cui è legato da reciproca stima. Tuttavia obbedisce, li prende e li porta in questura. A Pinelli dice di raggiungerli in vespa. Pinelli rimane in questura oltre le 48 ore di fermo, fin quando viene finalmente interrogato.

Nell’ufficio del commissario ci sono 4 poliziotti e un carabiniere, che poi si scoprirà essere anche agente dei servizi segreti italiani, una presenza immancabile e decisiva in tutto il buio del decennio lungo. Nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre il rumore sordo di un tonfo rompe il silenzio. E’ il corpo di Pinelli caduto dalla finestra della stanza in cui era interrogato. Morirà subito dopo all’ospedale. Certe notti… Per Calabresi è l’inizio della fine. Viene ritenuto il responsabile della morte di Pinelli, finisce nel tritacarne del linciaggio pubblico mediatico. La Cederna “Piumino da cipria” (Montanelli) è spedita in ospedale da GianPaolo Pansa, vede il corpo e scrive sull’Espresso un durissimo j’accuse contro Calabresi, sottoscritto da 757 firme, con tutte le maggiori firme  dell’epoca, tranne una (e in pochi faranno pubblica ammenda).

Il giornale Lotta Continua imbastisce un’orrenda campagna di stampa contro di lui, pubblicando ogni giorno l’indirizzo di casa sua, via Cherubini 6 a Milano. Lo Stato lo lascia solo, senza scorta, con la sua 500 blu, che non è un’autoblu, né una Torpedo blu con cui venire a prenderti stasera. Achille Serra, il giovane prefetto della Milano di allora, dirà che Calabresi, per due anni, è stato ucciso ogni giorno, sempre e continuamente additato come assassino di Pinelli. Non si poteva non sapere come sarebbe finito. E, infatti, il 17 maggio 1972 Calabresi, appena uscito di casa, viene freddato alle spalle con due colpi di pistola: schiena e nuca. Buio, certe notti…

Le indagini dimostreranno che Calabresi non era presente nel momento della “defenestrazione” di Pinelli, e solo nel gennaio del 2000, dopo 28 anni di processi, sentenze, sentenze annullate, ed ancora processi, si arriverà alla sentenza di colpevolezza di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, i leader di Lotta Continua all’epoca del delitto. Sofri e Bompressi, sempre dichiaratisi innocenti, hanno scontato la loro pena. Pietrostefani è fuggito in Francia e oggi, 18 maggio 2022, 50 anni dopo l’assassinio di Calabresi, la Corte di Appello di Parigi ha deciso sulla sua estradizione: ha deciso di non decidere, rinviando l’udienza al 29 giugno.

Un passo indietro, doveroso. L’unica firma di spicco che non firmò il j’accuse della Cederna, fu Enzo Tortora, giornalista scomodo, ai tempi in castigo dalla Rai. Benchè molto diversi tra loro, fu l’unico a credere nell’innocenza di Calabresi, gli stette vicino, diventarono amici. Ma non finisce qui, perché qualche anno più tardi anche Tortora finirà nello stesso tritacarne mediatico, il mostro sbattuto in prima pagina, uno dei più clamorosi errori giudiziari della nostra storia recente. Riconosciuto innocente, nell’87 rientrerà in Rai col suo famoso “Dove eravamo rimasti?”, ma la sorte non gli sarà amica. Morirà un anno dopo, il 18 maggio 1988, a 59 anni, ieri 34esimo anniversario, il giorno dopo il 50esimo di Calabresi. Buio, certe notti…

Certe notti sono destinate a durare per sempre, certe notti invece no. Basta una crepa e la luce ci si infila, parafrasando il libro di Gemma, la moglie del Commissario, vedova a 25 anni e che nel 2009 si incontra e si riappacifica con Licia Pinelli, la moglie del ferroviere. “Finalmente!”, diranno entrambe, “Sarebbe ora!”, dico io, pensando allo scontro quotidiano cui assistiamo e partecipiamo su tutto.

La storia è la memoria, non va abbandonata nella notte: “Sentinella, quanto resta della notte?” La sentinella risponde: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite“¹. Insomma, la durata della notte dipende da noi, perché “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa” ²

¹ Isaia 21,11-12

²  (N. Bobbio, citato spesso dal Card. C. M. Martini

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