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Una delle sfide aperte dal Concilio, forse la più radicale e suggestiva, è quella del confronto con la modernità. Quest’ultima ha generato nella cultura occidentale l’idea che il soggetto partecipa alla determinazione della verità. Non voglio citare tutti gli autori che in quell’epoca hanno contribuito a approfondire questa consapevolezza, basti pensare a Cartesio e arrivare sino a Kant. Prima del Concilio la chiesa aveva vissuto un primo approccio con il pensiero moderno, sfociato però in quella triste storia che ha preso il nome di Modernismo. Triste perché è costata l’isolamento a molti che modernisti non erano, perché da parte della Chiesa ci si è limitati alla condanna e non si è aperto il confronto e, infine, perché si è pensato di tornare semplicemente allo studio di S. Tommaso, come se questo gesto chiudesse per sempre la questione.

Paradossalmente, proprio lo studio dell’opera di Tommaso ha consentito ai teologi di comprendere che la recezione di Tommaso in epoca moderna e contemporanea non era una semplice ripetizione; si potrebbe dire che era stato insegnato un tomismo che non era Tommaso. Semplificando, partendo da qui è nata la consapevolezza della storia come dimensione fondamentale della teologia, della stessa Chiesa e più radicalmente, della Rivelazione stessa. Non si è trattato di una caduta nel relativismo, come alcuni sostengono, ma della scoperta di una modalità del darsi della verità per l’uomo, all’evento della quale l’uomo partecipa liberamente.

Bene, il Concilio ha recepito questo travaglio e lo ha elaborato e pubblicato nei propri documenti, dando origine a un dibattito vivace e proficuo. Dopo questa scelta di dialogo continuo con la modernità non è possibile tornare indietro, proprio perché da essa è nato un nuovo modo di praticare la teologia e anche di essere chiesa. Qualcuno dice che questa scelta ha insinuato nella comunità cristiana l’idea che la modernità è buona in se stessa, con il rischio di andare a nozze anche con i limiti che essa presenta. La mia risposta è che se Sant’Agostino, San Tommaso, avessero scelto la ripetizione e non il confronto coraggioso con la cultura a loro contemporanea, non avrebbero donato nulla alla comunità cristiana. Basta studiarli per rendersene conto. Il confronto deve essere serio, critico, ma non si può chiedere al pensiero di arroccarsi in un atteggiamento difensivo.

Fedeltà alla Rivelazione è anche, subito, fedeltà all’uomo. Mi pare di poter dedicare, con umiltà, questi brevi pensieri a Hans Küng, morto il 6 aprile a Tubinga. Si possono anche discutere alcune sue posizioni, apprezzarne molte altre. Quello che è riconoscibile tuttavia è il continuo sforzo di ricerca proprio nel solco del Concilio che lui aveva vissuto in prima persona, arricchendo il dibattito teologico che, soprattutto ultimamente, è divenuto, con rare eccezioni, stucchevole e noioso. Non l’ho mai osannato, non l’ho mai ignorato, l’ho sempre apprezzato, soprattutto per il pensiero schietto e complesso che ci ha donato. Ricordarlo è doveroso, in giorni in cui la Chiesa, spesso, rischia di tornare autoreferenziale.

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